Cerca
Close this search box.

Artemisia Gentileschi

Denunciare la violenza attraverso l’arte in un’epoca in cui non vi erano diritti per le donne

Autoritratto, Artemisia Gentileschi, 1638

Introduzione biografica

Nata a Roma l’otto luglio 1593, figlia di Orazio e Pudenzia di Ottaviano Montoni, Artemisia Gentileschi cresce immersa nell’arte fin da bambina. Il padre, Orazio Gentileschi, era un pittore. Ma il suo vero avvicinamento alla pittura avvenne nel periodo in cui sua madre morì, nel 1605. Osservando il padre durante le giornate trascorse a dipingire, inizia a maturare una profonda ammirazione e un grande senso di emulazione. La formazione dell’artista avviene nell’ambito artistico romano sotto la guida del padre che fu in grado di valorizzare il talento della figlia nato così precocemente. Dopo lunghi anni di insegnamento da parte del padre, tra il 1608 e il 1609 Gentileschi iniziò una collaborazione con lo stesso. L’artista iniziò ad intervenire sulle tele del padre per poi passare a lavori svolti autonomamente.

Lo stupro

L’artista iniziò, dunque, il proprio percorso nel mondo dell’arte fin piccola. Un percorso precoce, sostenuto e stimolato dal padre. Fu proprio lui, nel 1611, a scegliere come maestro per la figlia, Agostino Tassi. Agostino Tassi era conosciuto per le sue capacità pittoriche ma, allo stesso tempo, era famoso negli scandali dei tempi per essere un personaggio irascibile e ciarlatano. Tassi fu mandante di numerosi omicidi. Ed è proprio nel 1611 che Gentileschi fu vittima di uno degli eventi più traumatici della sua esistenza. Approfittando dell’assenza del padre, durante le presunte lezioni di pittura, Tassi stuprò Gentileschi.

«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne»

(Fonte: Wikipedia.it)

Il processo e il matrimonio riparatore

Tassi tentò di sposare Gentileschi, con lo scopo di poter attingere al matrimonio riparatore.

A questo proposito è fondamentale aprire una parentesi su cosa sia il matrimonio riparatore (ndr). All’epoca in cui visse l’artista, un uomo che compiva uno stupro, poteva tranquillamente fare affidamento al cosiddetto matrimonio riparatore. Lo scopo del matrimonio riparatore era quello di placare gli animi dell’opinione pubblica e del buon costum, poiché si riteneva che lo stupro potesse ledere la moralità generale. Non era, dunque, minimamente presa in considerazione la dignità del soggetto stuprato. La donna era considerata come un oggetto, e non era libera di godere di diritti, tantomeno di poter denunciare lo stupro di cui era stata vittima. Bisogna inoltre ricordare che si dovrà aspettare fino al 1981 per vedere abolito il matrimonio riparatore. Difatti lo stupro viene considerato come reato contro la persona lesa solo nel 1996. Prima d’allora veniva considerato come reato contro la morale.

Ma torniamo alla nostra artista, al suo percorso di denuncia in quanto donna e di come sia riuscita a denunciare la violenza contro le donne attraverso la sua arte, in un’epoca in cui alle donne non veniva riconosciuto alcun diritto.

Dopo aver subito lo stupro da parte di Tassi, prese il via un processo nel quale il pittore fece, per l’appunto, appello al matrimonio riparatore. Gentileschi cedette e il padre non pronunciò mai parola contro l’accaduto, tacendo, nonostante la denuncia della figlia. Quando, nel 1612, il padre dell’artista venne a conoscenza del fatto che Tassi fosse già sposato, e che il matrimonio con la figlia non sarebbe mai avvenuto, inviò una querela a papa Paolo V per denunciare lo stupro. Prese così avvio un lungo processo che vide Gentileschi vittima di ingiurie e false testimonianze. Nonostante le difficoltà, l’artista riuscì comunque ad affrontare il processo con forza e dedizione. Durante il processo, l’artista fu costretta a subire numerose e umilianti visite ginecologiche. Gentileschi venne interrogata sotto tortura, le furono legati i pollici con delle corde che si stringevano sempre di più, rischiano di perdere le dita, un danno irreparabile per un’artista. Nonostante le barbarie subite, l’artista decise di non arrendersi, voleva che i suoi diritti le venissero riconosciuti e che la verità venisse a galla. Finalmente, il 27 novembre 1627, le autorità giudiziarie accusarono Tassi di “sverginamento”. Tassi dovette pagare una sanzione pecuniaria e fu condannato a cinque di anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio da Roma. Tassi non scontò mai la sua pena. Rimase a Roma e continuò a lavorare per i suoi committenti, i quali esigevano la sua presenza in città. Dopo il lungo processo e le barbarie alle quali l’artista fu sottoposta, iniziò per Gentileschi un lungo periodo di difficoltà. Fu sempre più difficile riuscire a ricominciare a lavorare, poiché la sua reputazione fu profondamente lesa agli occhi dell’opinione pubblica. Il 29 novembre 1612, un giorno dopo l’estenuante processo, l’artista sposò il pittore Pierantonio Stiattesi, con il quale si allontanò da Roma. E fu proprio la scelta di allontanarsi da Roma per spostarsi a Firenze a dare il via ad una nuova vita per l’artista. Gentileschi si spostò più volte nell’arco della sua vita, senza mai rinunciare alla sua passione per la pittura.

Le opere e la denuncia

Giuddita decapita Oloferne, Artemisia Gentileschi, 1620

Giuditta decapita Oloferne è una delle prima opere artistiche nelle quali Gentileschi mostra con cruda realtà una delle scene bibliche più violente. Si tratta di un’opera che, molto probabilmente, rappresenta lo stato d’animo della pittrice durante i turbolenti anni del processo. La critica ha letto in quest’opera il tentativo dell’artista di denunciare la violenza e gli abusi subiti dall’artista. Un riscatto che Gentileschi riesce a dare a se stessa e alla sua dignità attraverso l’arte.

Susanna e i vecchioni, Artemisia Getileschi, 1610

In Susanna e i vecchioni, opera realizzata nel 1610, è possibile notare riferimenti autobiografici. Secondo le opinioni della critica è possibile riconoscere nella protagonista del dipinto la stessa artista e, nei due uomini raffigurati, i due uomini che hanno più segnato la dura vita dell’artista: il padre Orazio e Tassi, il pittore che la stuprò nel 1611. Nel 1616 la pittrice entra nell’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze. È la prima donna ad ottenere tale possibilità. Prima d’allora non vi era accesso per le donne.

La denuncia in un’epoca senza diritti

Artemisia Gentileschi è stata una pittrice in grado di denunciare le violenze subite attraverso la propria arte. La sua forza e la sua tenacia sono state di fondamentale importanza per la storia delle donne che, ancora oggi, si vedono private dei propri diritti in quanto esseri umani e, ancor prima, in quanto donne. E’ dunque fondamentale fermarsi a riflettere e ricordarsi che, se nel 1600, in un periodo storico in cui alle donne non veniva riconosciuto alcun diritto, un’artista tanto coraggiosa e forte sia riuscita, non solo a proseguire il proprio percorso artistico coronando la sua carriera di successi, ma anche a denunciare le barbarie subite, oggigiorno è ancora più importante continuare a portare avanti un processo di denuncia e lotta (pacifica) affinchè venga riconosciutà dignità, integrità e uguaglianza ad ogni donna in quanto tale e in quanto essere umano.

Anna Luna Di Marzo

Picture of violedimarzo

violedimarzo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ultimi Post

PrEP contro HIV: fa per te?

Salute, Sessualità

Quando l’arte diventa consapevolezza: Francesca Menghini, Unbounded

Arte

Donna, demone, civetta, vampiro: chiamatemi Lilith.

Femminismo, Letteratura, Sessualità

L’hai mai visto bene un porno?

Sessualità

Cookie & Privacy

Noi e terze parti selezionate utilizziamo cookie o tecnologie simili per finalità tecniche e, con il tuo consenso, anche per altre finalità come specificato nella Privacy Policy
Puoi acconsentire all’utilizzo di tali tecnologie utilizzando il pulsante “Accetta”. Chiudendo questa informativa, continui senza accettare.

Dal bookclub Storie di corpi – Melissa Broder “Affamata”