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Il cambiamento che meritiamo: Favole di figlie e madri sfortunate

Il nuovo libro di Rula Jebreal, uscito l’8 marzo 2021, racconta le esperienze di donne che negli ultimi decenni hanno combattuto per i diritti e per la libertà. È un invito rivolto a tutti: condividere la propria storia, rimpossessarsi della propria narrazione e andare avanti cercando di elaborare i traumi del passato.

Nel primo capitolo Jebreal racconta la tragica storia di sua madre. Nadia morì in un letto d’ospedale dopo essersi data fuoco nella città di Nazareth. Era gravemente depressa da anni, da quando a soli tredici anni il compagno della madre aveva cominciato ad abusare di lei. Nimer era il secondo marito di sua madre. Ogni notte entrava nella sua stanza per infliggerle una ferita indelebile.

Rula ha deciso di raccontare la storia di sua madre perché inevitabilmente si tratta anche della sua stessa storia e di quella di sua figlia Miral; ma non solo. È la storia di migliaia di bambini e bambine costretti a crescere senza famiglia, “figli di comunità sfregiate”. La storia che ha scelto di scrivere è quella di vittime che non hanno mai avuto giustizia. Si tratta di persone che hanno subito due volte violenza: la prima volta per mano del loro carnefice, la seconda per colpa di una comunità che non le ha protette o salvate come avrebbe dovuto.

Storie familiari

Le storie di stupro riguardano sempre una comunità: quando una donna viene violentata inevitabilmente questa “macchia” viene trasposta sull’intera famiglia.

“Mi sentivo contaminata dalla violenza, provavo vergogna. Non volevo essere una vittima”.

Questa testimonianza di Jebreal non è diversa dalle altre elencate nel libro, testimonianze che avvalorano la tesi per cui lo stupro è usato come “arma di distruzione”, che non ferisce solo chi lo ha subito. Questo è il motivo che spinse sua madre Nadia a togliersi la vita: credeva che così facendo avrebbe protetto la sua famiglia da quel dolore.

La tragedia avvenne quando Rula aveva cinque anni. Nadia l’aveva lasciata con Othman Jebreal, il padre adottivo, e con la sorellina Rania. Dopo aver avuto Rula con uno studente, poi partito per l’Europa, Nadia aveva avuto Rania con Othman, il quale si era subito preso cura di entrambe le bambine. Nadia aveva cominciato a scappare di casa sempre più spesso, fin quando non si era ricreata una nuova vita a Tel Aviv, avendo una terza figlia. Un’altra femmina che, nella sua testa, rappresentava un’altra possibile vittima. Questo avvenimento le causò una grave depressione, la quale aggravò il suo stato mentale già compromesso. Da anni l’unica cosa che le dava sollievo era infatti l’alcol.

La situazione precipitò il giorno in cui incontrò Nimer, il suo stupratore, che con calma si avvicinò a lei e sua figlia rivolgendole un complimento. Nadia sconvolta si procurò la benzina e la fece finita. “Il mio corpo è la mia prigione” fu una delle ultime cose che disse, oltre a supplicare il padre di Rula e Rania di salvare le bambine.

Nadia si sentiva la sola colpevole del suo dolore. Dopotutto la prima a colpevolizzare la vittima era stata sua madre Fatima quando, finalmente dopo quattro anni di abusi, Nadia si era decisa a confessare. Fatima ipotizzò che fosse stata la figlia a provocare Nimer o che l’uomo fosse ubriaco al punto di averle confuse. Decise allora di allontanare Nadia da casa, probabilmente un’ammissione di impotenza che per la figlia volle significare però una cruda condanna senza appello.

Quando crolla lo Stato di diritto: lo stupro di guerra

Nadia arrivò a Jaffa, dove un’altra Fatima la accolse. Per anni questa donna le offrì riparo e le diede un lavoro al ristorante che gestiva. Fu proprio lei a raccontare a Rula per la prima volta il calvario che aveva attraversato sua madre. Fatima aveva assistito a storie del genere tantissime volte. Nei teatri di guerra, quando crolla lo Stato di diritto, le donne sono le prime vittime. Il numero degli stupri e degli abusi aumenta sensibilmente, poiché il corpo della donna viene considerato merce da conquista. Diventa un “corpo politico” che simboleggia la nazione sottomessa, per dominare così i civili. Paradossalmente era questo il motivo per cui sua madre Fatima aveva sposato Nimer. Era rimasta vedova nel 1948, nel bel mezzo del conflitto arabo-israeliano. Sapeva perfettamente che cosa accadesse alle donne durante la guerra. Convinta che fosse il male minore cercò la protezione di un uomo.

Un esempio eclatante di stupri di guerra è costituito dalle guerre che sconvolsero i Balcani negli anni novanta del Novecento. Una giornalista che mostrò uno dei lati più atroci della guerra fu Seada Vranić. Per il suo libro Pred zidom sutnje (Breaking the Wall of Silence, nella traduzione inglese) raccolse e documentò oltre 300 testimonianze delle vittime degli stupri di guerra in Bosnia-Erzegovina, riportandone 12, assieme ad un’analisi sull’impatto sociologico e psicologico dell’accaduto. Vranić fu una delle prime a riconoscere e ad attestare il fatto che lo stupro fosse usato come strategia di guerra nel conflitto serbo-bosniaco:

“All’inizio non riuscivo ad accettare l’idea che lo stupro potesse essere una strategia per la guerra espansionistica. Ma dopo quattro mesi il mosaico mi divenne chiaro: località completamente differenti mostravano lo stesso svolgimento degli eventi, avevo testimonianze di vittime di stupro da ognuno di questi luoghi”.

Le forze serbe infatti seguirono una strategia di abusi sessuali con migliaia di ragazze e donne musulmane di origine bosniaca. Non esiste alcun dato sicuro su quanti, donne e bambini, furono sistematicamente violentati dalle forze serbe, ma si stima che il numero delle vittime sia tra le 20 e le 50 mila.

Il lascito di Nadia

Nadia iniziò a lavorare al ristorante di Fatima a Jaffa, ma gli attacchi d’ira erano sempre più intensi e si riversavano sui clienti. Venne arrestata diverse volte, aveva solo 21 anni, era alcolizzata e fortemente depressa. Al momento dell’ultima scarcerazione, Fatima le chiese di non tornare a Jaffa, suggerendole di trovare un posto dove potesse finalmente elaborare i suoi traumi e trovare un po’ di pace. Si recò così a Gerusalemme dove venne accolta da una comunità di attiviste per i diritti delle donne. Conobbe lì il padre biologico di Rula e poi Othman Jebreal. Quest’ultimo raccontò alle figlie che Nadia si sentiva perennemente come se avesse una bomba dentro di sé pronta ad esplodere.

Dopo il suicidio di sua Fatima, Othman scoprì di avere la leucemia. Decise di iscrivere Rula e Rania all’istituto Dar Al-Tifel, un collegio femminile che accoglieva bambine di ogni estrazione sociale. La missione della fondatrice era quella di salvare le ragazze che non avevano nessuna possibilità. È proprio in quell’istituto che Rula si è formata, che ha iniziato il suo attivismo politico, coltivando la passione per i temi sociali. La giornalista si dice eternamente grata al padre per essere stato il primo esempio di un femminista incontrato nella sua vita. Aveva dedicato la sua vita alla diversità, sposando una donna libera e difficile, crescendo le figlie instillandole costantemente fiducia in loro stesse, affidandole poi alle cure di un’attivista progressista e femminista.

La fondatrice, Hind al-Husseini, aveva aperto l’istituto nel 1948. Nel pieno infuriare del conflitto israelo-palestinese, si era imbattuta in cinquantacinque bambine e bambini non accompagnati: erano gli orfani del massacro di Deir Yassin, villaggio palestinese attaccato dai sionisti. Hind li aveva accolti in casa sua. Da lì la scuola crebbe.

Lì le bambine erano cresciute con la consapevolezza di dover migliorare la propria esistenza e contribuire al miglioramento delle vite altrui.

Rula descrive come per moltissimi anni di attivismo si sia prodigata per dare voce a chi non ce l’aveva, senza tuttavia elaborare il proprio vissuto traumatico:

“usavo la mia voce per raccontare le storie delle donne. Parlavo di altro per non parlare di mia madre, di me, di mia figlia. Avevo paura di essere portatrice di quei semi di distruzione che avevano devastato Nadia”.

La giornalista ha avuto Miral, sua figlia, a 23 anni. Dover essere madre senza aver mai avuto un vero modello di riferimento ha costituito per lei la sfida più grande. Capì a quel punto di dover elaborare la sua storia familiare per potersi finalmente sentire libera, per riprendere in mano la sua narrazione e definirne la direzione, senza più sentirsi condannata ad essere “una vittima” in eterno. Per questo ha deciso di cominciare il libro con la sua storia, prima di offrire tantissimi altri esempi e spunti di riflessione su come le donne stanno tracciando la strada verso il futuro.

“questo libro è un invito a tutti […] condividiamo le nostre paure, proprio come facevamo io e le altre bambine all’orfanotrofio. Accettiamo quelle paure, superiamole, e poi andiamo avanti. Insieme”.

Sara Valentina Natale

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