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L’occupazione femminile e la maternità

Nel periodo fascista la donna non poteva rinunciare al lavoro domestico bensì solo a quello extradomestico. Il suo compito era quello di fare la moglie e la madre e doveva essere mal istruita poiché, così, poteva essere influenzata dalle decisioni del capo famiglia.

Nell’età moderna la donna indipendente non era vista di buon occhio in quanto l’uomo doveva mantenere la donna e la casa era il posto in cui la donna poteva contribuire al matrimonio. Se la famiglia si trovava in condizioni finanziarie disagiate, alla donna era concesso lavorare ma sempre nei limiti inerenti alla casa (esempio tessitrice). Solo alcune attività erano riconosciute alla donna, ovvero ostetricia e medicina. Con il susseguirsi degli anni la stampa femminile dava voce a tematiche riguardanti il mondo del lavoro femminile. La rivista “La donna socialista” scriveva che le donne lavoravano dalle 12 alle 15 ore al giorno e che i salari erano più bassi di quelli degli uomini. Anche la situazione di partenza delle donne nel mercato del lavoro era più debole rispetto a quello degli uomini ma, in seguito, si aprirono sempre più nuove opportunità per le donne, come l’occupazione dei “coletti bianchi” (lavori divenuti disponibili con l’espandersi dei servizi e dei commercianti) ovvero i lavori d’ufficio come la segretaria, la dattilografa, la commessa e così via. Questi posti, però, erano rivolti perlopiù a giovani donne sotto i 25 anni e non sposate (questo perché il lavoro poteva allontanarle dalla propria casa). Tra l’ottocento e il novecento vi fu un grande spostamento dal lavoro domestico al lavoro d’impiego e la pubblicità si concentrava maggiormente sulle donne che erano coloro che decidevano gli acquisti per la casa, creando di conseguenza nuovi stereotipi sulla donna stessa.

A cavallo tra il XIX e il XX secolo si iniziò a parlare di legislazione sociale. In questo secolo si vedeva il lavoro come un’opportunità di crescita e di trasformazione del ruolo femminile nella società. La prima legge a favore della donna fu quella del 1902, una legge di tutela per salvaguardare la loro capacità di procreazione. Questa in seguito fu modellata, fu vietato il lavoro notturno e inserito un obbligo del congedo di maternità (limitato a quattro settimane dopo il parto).
La maternità è un diritto fondamentale della donna e se quest’ultima viene discriminata per il suo stato di gravidanza/maternità si è in presenza di una violazione del principio di uguaglianza. Tale discriminazione è chiamata gender plus. La gravidanza e la maternità, come fattori discriminatori, si estendono anche alla paternità non come fattore di genere ma come fattore di ruolo. La tutela della maternità e tutto ciò che riguarda quest’ultima ha radici molto antiche.

Solo nell’ultimo secolo fu previsto da un legislatore il diritto della lavoratrice madre ad un periodo di sospensione dell’attività lavorativa nel periodo della gestazione. Oggi, a seguito dell’introduzione della carta costituzionale, alcuni articoli di quest’ultima tutelano la condizione della madre lavoratrice. Si parla dell’articolo 37 il quale cita “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore […]” e dell’articolo 31 “la legge, protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istinti necessari a tale scopo […]”.
A livello occupazionale persiste, se pur in lenta rivoluzione, un forte divario tra i generi soprattutto a livello territoriale in cui gli sviluppi economici del paese hanno sempre portato ad uno sviluppo a forbice a sfavore del meridione. Le donne sono poco presenti all’interno del mercato del lavoro, in particolare le donne madri che si sono viste “costrette” a limitare la propria vita professionale e in alcuni casi anche a rinunciarci completamente, a favore della presa in carico della responsabilità di cura familiare e domiciliare. Lo squilibrio occupazionale tra i generi è favorito maggiormente dalla presenza di possibilità di servizi di supporto alla genitorialità quali, ad esempio i servizi all’infanzia.
Dopo varie ricerche condotte dall’Istat riguardo lo studio su gli stereotipi più diffusi tra i generi è risultato che, quello più comune, è inerente al successo professionale. Successivamente segue lo stereotipo secondo il quale gli uomini sarebbero meno adatti delle donne ad occuparsi delle faccende domestiche e, infine, troviamo la convinzione che il compito di portare il pane a casa spetti soprattutto all’uomo.

La tutela della maternità ha radici “antiche”

Già ad inizio secolo era stato previsto dal legislatore il diritto della lavoratrice madre ad un periodo di sospensione dell’attività lavorativa nel periodo della gestazione. Era la legge 19/6/1902 n: 242. Ma per giungere ad una vera e propria tutela bisogna arrivare alla legge sull’impiego privato del 23/9/1924 n:1825 che per prima ha introdotto il divieto di licenziamento.

Il legislatore del 1942, col l’art 210 c.c., ha poi formulato una tutela generale, sia della maternità sia del puerperio, prevedendo il diritto alla retribuzione durante il periodo di sospensione, sia il divieto di licenziamento per tutta la durata della gravidanza, e fino al compimento di un anno d età del bambino.

Con l’introduzione della carta costituzionale, la tutela della maternità diventerà più ampia. Infatti
alcuni articoli della costituzione tutelano la condizione della madre lavoratrice, come l’art 37, “la
La tutela della maternità ha radici “antiche”. Già ad inizio secolo era stato previsto dal legislatore il
diritto della lavoratrice madre ad un periodo di sospensione dell’attività lavorativa nel periodo della
gestazione. Era la legge 19/6/1902 n: 242. Ma per giungere ad una vera e propria tutela bisogna
arrivare alla legge sull’impiego privato del 23/9/1924 n:1825 che per prima ha introdotto il divieto di licenziamento.

La normativa sulle lavoratrici prevede SPECIALI GARANZIE e DIRITTI per assicurare l’essenziale
FUNZIONE FAMILIARE quindi:

  1. GARANZIE SUL POSTO DI LAVORO dove la donna incinta non può essere licenziata nel periodo compreso tra l’inizio della gestazione ed il compimento del primo anno di età del bambino, salvo che per colpa grave (es.: furto), cessazione dell’azienda o scadenza del contratto a termine. In caso di licenziamento la donna ha il diritto di chiedere, agendo per vie legali, la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni. Durante questo arco di tempo la lavoratrice non può nemmeno essere messa in cassa integrazione o essere soggetta a riduzione dell’orario di lavoro.
  2. Dall’inizio della gravidanza fino a sette mesi dopo il parto non può essere adibita al trasporto ed
  3. al sollevamento dei pesi o a lavori pericolosi.
  4. Le dimissioni volontarie della madre lavoratrice devono essere comunicate all’Ispettore del Lavoro, che deve dare la propria approvazione per renderle efficaci. Con questo sistema si cerca di scoraggiare la pratica, per fortuna sempre più rara, di
  5. far firmare alle lavoratrici appena assunte una lettera di dimissioni con la data in bianco, da utilizzare in caso di maternità.
  1. ASTENSIONE DAL LAVORO E INDENNITA’: Un’importante novità prevista dalla recente legge 53/00 riguarda l’astensione per maternità: infatti, mentre in precedenza l’astensione obbligatoria dal lavoro riguardava obbligariotamente il periodo compreso tra i due mesi precedenti la data presunta del parte e i tre mesi successivi, è ora possibile una maggiore elasticità. La lavoratrice può infatti scegliere (previa attestazione medica)
    di far “slittare” in avanti li periodo di sospensione dal lavoro, da un mese prima della data presunta del parto fino a quattro mesi dopo la nascita del bambino. In questi mesi le lavoratrici dipendenti
    ricevono un’indennità pari all’80% della retribuzione, pagata dall’INPS tramite il datore di lavoro.
    Molti contratti di categoria prevodono poi che l’azienda integri l’indennità per portarla alla pari con lo stipendio.
    Notevoli cambiamenti anche per quanto riguarda i successivi periodi di astensione facoltativa: è infatti ora possibile sia alla mamme che ai papà, nei primi 8 anni di vita del bambino, usufruire di un periodo di astensione pari complessivamente a 10 mesi, secondo le seguenti regole: alla madre spetta un periodo
    (continuativo o frazionato) non superiore ai 6 mesi, e così pure al padre.
    Godono di questi diritti tutte le lavoratrici dipendenti, comprese quelle che lavorano in enti pubblici o come socie di cooperative.

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Sabrina Dolce

violedimarzo

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