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Il canto di Penelope – Margaret Atwood

“[…] di un lavoro che non finisce mai si dice è <>. Non amo che si usi la parola tela. Se il sudario fosse stato una tela, io sarei stata un ragno, ma il mio scopo non era catturare gli uomini come fossero mosche, al contrario, non volevo farmi catturare.”

Dopo anni di letture scolastiche e interpretazioni cinematografiche, il mito di Odisseo è ormai diventato un tassello imprescindibile della nostra cultura.
La storia di Ulisse la conosciamo bene. Più di tutto, ci ricordiamo del suo ritorno a Itaca, del travestimento in vecchio mendicante, della famosa sfida con l’arco, della strage e uccisione dei Proci e del ricongiungimento con Penelope, la fedele, devota moglie dell’eroe. È forse un po’ meno nota, però, l’impiccagione delle sue ancelle.
Quella che ci viene raccontata dall’Odissea, infatti, non è l’unica versione della storia. Il mito aveva una tradizione orale ed era sufficiente cambiare località per sentirne una versione completamente differente.
Ed è proprio di queste interpretazioni secondarie che Margaret Atwood, come possiamo facilmente immaginare, si serve per dar voce a una protagonista che una voce non sembra averla avuta mai.
Il canto di Penelope è un’opera brevissima, quasi teatrale. Al centro, sorgono due domande: “che cosa ha portato all’impiccagione delle ancelle? E che cosa c’era
davvero nella mente di Penelope?”.
Il sipario quindi si apre e dal profondo dell’Ade appare lei, che da personaggio silenzioso e devoto come lo conoscevamo, si trasforma in voce sincera e coraggiosa, pronta a raccontarci la sua versione della storia: “Ora che tutti gli altri hanno parlato a
perdifiato, è giunto il mio turno. Lo devo a me stessa.”
Un lungo monologo ci riconduce qualche passo indietro, percorrendo a ritroso una vita che sembra d’un tratto trasformarsi, tutta, in un’estenuante attesa.
A intervalli regolari, come in un vero e proprio intermezzo teatrale, la voce di Penelope è poi interrotta dal coro delle ancelle, bisognose di sfogare la propria rabbia, di declamare a gran voce il proprio desiderio di vendetta, per una condanna ingiusta, per essere state stuprate, uccise, impiccate senza ragione. Ancora una volta per mano dell’uomo, ancora una volta per mano del padrone.
Quali erano perciò i pensieri, i sentimenti di Penelope quando fu data in sposa a Ulisse? Quali le raccomandazioni, i silenzi, i divieti che le venivano imposti? E soprattutto chi era davvero Ulisse?
Il personaggio dello scaltro, astuto Odisseo prende così nuove sembianze, raccontandoci di un bugiardo, un artista del travestimento e dell’inganno, di un assassino.
O almeno, così è come appare nel processo che fa da sfondo alle ultime pagine, dove la realtà del ventunesimo secolo fa i conti con il mito e l’eroe, per quanto leggendario, non sembra poter più sfuggire alle proprie responsabilità, vittima e al contempo carnefice della furia delle ancelle, le dodici innocenti schiave innominate.

“Ehilà, signor Accorto, signor Generoso, signor Divino, signor Giudice! Guardati alle spalle! Siamo qui, ti seguiamo, vicine vicine, vicine come un bacio, vicine come la tua pelle.”

Sull’autrice

Margaret Atwood è una poetessa e scrittrice di origine canadese.
Nata a Ottawa, nel 1939, la sua carriera comincia intorno alla metà degli anni ’60, con la pubblicazione di una raccolta di poesie, “The Circle Game” e di un romanzo, “The Edible Woman”, entrambi accolti dalla critica come alcune tra le migliori pubblicazioni del periodo.
Oggi, grazie al successo del suo romanzo “The Handmaid’s Tale” (“Il racconto dell’ancella”) e dell’omonima serie tv, è ormai una scrittrice di fama mondiale, ma il suo impegno si estende ben oltre l’uso del linguaggio e delle parole, facendo di lei un 83enne attivista ed energica, in prima fila nella battaglia per i diritti delle donne e per la salvaguardia dell’ambiente.

Irene Serra

violedimarzo

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