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Smontare il male gaze nel mito delle vergini suicide

Nel 1846 Edgar Allan Poe pubblica il saggio The philosophy of Composition (“La filosofia della composizione”), in cui espone le sue teorie sul modo in cui la composizione letteraria dovrebbe svolgersi e nel quale sostiene che “la morte di una bella donna è, senza dubbio, il tema più poetico del mondo” (“The death of a beautiful woman is, unquestionably, the most poetical topic in the world”). Negli anni ’90 del secolo successivo Elisabeth Bronfen, professoressa di Letteratura e Studi Americani all’Università di Zurigo, prende spunto da questo concetto e pubblica un libro intitolato Over Her Dead Body: Death, Femininity and the Aesthetic (“Sul cadavere di lei: morte, femminilità ed estetica”). Il libro affronta la tematica delicata quanto problematica della rappresentazione di donne senza vita nell’arte e nella letteratura del mondo occidentale, indagando il modo in cui questa rappresentazione viene realizzata: principalmente, in funzione di un senso estetico che attribuisce alla morte femminile un’aria suggestiva di fascino, grazia e mistero, e che tramanda l’ideale di una bellezza femminile elegantemente immacolata.

La poeticità con cui la morte femminile viene descritta o raffigurata si accentua quando a venire rappresentato è un suicidio, il quale spesso è il risultato di una storia d’amore dolorosa, di un rifiuto o di una prolungata isteria. Di conseguenza, percepito in una dimensione subdolamente erotica, il suicidio femminile perde complessità in favore di una componente lirica che tende a romanticizzarlo. Diversi sono gli esempi, sia artistici che letterari:
l’Ofelia di Amleto, la morte poetica per eccellenza, come rappresentata dall’artista John Everett Millais; Anna Karenina, più tragica e brutale; Lady Macbeth, alla fine di un lungo delirio; Didone, disperata per la partenza dell’amato Enea.

Sebbene la morte e il suicidio femminili raggiungano uno stato di verosimile topos nell’era vittoriana, essi vengono comunque riproposti e reiterati anche nei secoli precedenti e successivi. Nel 1993 lo scrittore Jeffrey Eugenides pubblica il suo primo romanzo, Le vergini suicide, il cui adattamento cinematografico diretto da Sofia Coppola e distribuito nelle sale nel 1999 è diventato, ad oggi, un vero e proprio cult. Le vergini suicide racconta di cinque sorelle adolescenti, le sorelle Lisbon, le quali commettono tutte inspiegabilmente suicidio nel corso di un anno, di cui quattro nel corso di una sola estate. La storia è raccontata da un gruppo di ragazzi, al tempo loro coetanei, che circa vent’anni dopo i fatti continuano a farsi domande sulla ragione del suicidio delle ragazze e si rammaricano dell’impossibilità di arrivare a risolvere il mistero.

Le vergini suicide riprende quindi il topos della giovane e bella donna e della sua morte, lo moltiplica per cinque e lo permea di un’atmosfera soave e mitologica, ammaliante, che favorisce l’immedesimazione con i narratori e contribuisce a far percepire le sorelle Lisbon come delle figure eteree quantomai seducenti e distanti anche ai lettori. Quello che se ne ricava, tuttavia, sembra essere un biasimo proprio a tale topos, che a un occhio più critico ne rivela tutta la problematicità.

Costruzione del topos fra epoca romantica e vittoriana

L’avvento del Romanticismo nel XIX secolo promuove una nuova filosofia di vita, devota principalmente all’esaltazione del sentimento e del turbamento umano, alla focalizzazione sul sé interiore, alla contemplazione spirituale della natura, amica e nemica allo stesso tempo; prerogativa assoluta del Romanticismo è il rifiuto dei precedenti dogmi imposti dalla ragione illuminista.

Questa nuova corrente genera la nascita di un nuovo archetipo: l’uomo romantico è tormentato, incompreso, emarginato, preda di forti emozioni e spesso frustrato a causa della realtà in cui vive, che non è in grado di capire l’animo romantico. In questo contesto, poeti come Keats e Wordsworth vedono nella morte un modo per sfuggire dalla delusione di questa realtà, un modo per diventare parte della natura oppure uno stato di sogno eterno privo di sconforto. Per molti, la morte diventa una liberazione, il suicidio un atto finale di ribellione alle ingiustizie di una società troppo occupata a sprofondare nel materialismo per cogliere il vero senso della vita; dappertutto, morti tragiche e premature di giovani uomini contribuiscono a costruire il mito dell’artista romantico dalla vita breve ma estremante intensa, per sempre cristallizzato nella sua giovinezza. Il suicidio diventa un atto eroico. Al progredire dei decenni, e nel pieno dell’età vittoriana, queste concezioni iniziano a sgretolarsi. I tassi di suicidio sono alti fra gli uomini, ma il consolidarsi delle dinamiche di genere impone che gli uomini siano più resistenti alle tribolazioni mentali che potrebbero potenzialmente condurre al suicidio. La donna, invece, secondo la concezione dell’epoca, è più prona alla debolezza, è portata all’isteria: di conseguenza, il suicidio, privato della dimensione eroica propria del Romanticismo, deve essere un problema tipicamente femminile.

È in questo periodo che inizia a diffondersi l’ideale estetico della donna dall’aspetto sempre gracile e delicato, dalla carnagione pallida e di natura cagionevole, che diventa un vero e proprio prototipo di bellezza femminile del tempo: un esempio di male gaze vittoriano, dietro il quale si cela una morbosa venerazione verso la malattia e la morte femminile, con l’intenzione di nobilitare ed esaltare in senso soprattutto erotico due stati di estrema passività in cui, di fatto, la donna perde autosufficienza.

La rappresentazione di un cadavere nell’arte ci pone, come osservatori, nella condizione del ‘sopravvissuto’. C’è una velata dinamica di potere alla base, per la quale a colui che guarda è dato di contemplare la morte senza essere deprivati della propria vita. Quando ad essere rappresentato è il corpo senza vita di una donna, questo tipo di dinamica si rafforza, assecondando i ruoli di genere: l’uomo ha il potere di guardare e raffigurare, nel caso dell’artista, la donna che è morta; il suo corpo, in un certo senso, diventa di sua proprietà, validato solo grazie al suo sguardo o al suo pennello. Il cadavere della donna funge da garanzia all’uomo della sua superiorità, in quanto uomo e in quanto sopravvissuto.

Le vergini suicide: una cronaca maschile

Le sorelle Lisbon sono cinque adolescenti che corrispondono a un ideale estetico vagamente collegato a quello vittoriano precedentemente descritto: belle, giovani, bianche, tutte bionde. L’adattamento cinematografico accentua queste caratteristiche: cinque giovani attrici dalla pelle diafana, costumi bianchi con merletti, tulle, fiori. Il titolo del romanzo ha il preciso scopo di offrire una caratterizzazione di questi personaggi incompleta ma sufficiente ai fini della storia: vergini, che rimanda quindi a un concetto che riguarda purezza, giovinezza, desiderio erotico e un’intoccabilità sacra di matrice cattolica che richiama la Vergine Maria, complice l’estrema religiosità dei genitori Lisbon; suicide, che riprende il topos della morte femminile e della sua romanticizzazione, allarga la dimensione di mistero intorno alle figure delle sorelle e contribuisce a fissarle nel tempo come delle statue, sulla scia dei giovani poeti romantici: per sempre giovani, per sempre belle, per sempre un mistero.

Le vergini suicide è un romanzo che parla di cinque sorelle, ma non è la loro storia: è una storia su di loro.

Il punto di vista narrativo è quello di un anonimo, generico gruppo di ragazzi, che potrebbe essere un qualunque gruppo di ragazzini del genere dei protagonisti di un cult anni ’80 alla Stand by me o I Goonies. Lo sguardo di questo gruppo di ragazzi assurge ad esperienza universale del genere maschile nei confronti della crescita e del desiderio adolescenziali, un filtro attraverso il quale la storia viene elaborata.

L’esperienza femminile, sebbene non universale nel medesimo senso inteso per l’esperienza maschile, è tagliata fuori, raccontata esclusivamente secondo percezioni e impressioni di questo gruppo di ragazzi. Nel corso del romanzo si viene a sapere poco delle sorelle in quanto personaggi, fatti sporadici e frammentari che non riescono a costruire una vera identità singolare per ciascuna di loro. Si crea un’identità di gruppo, che concepisce le cinque ragazze come le sorelle Lisbon, che manca comunque di riconoscerle come individui e che serve, in primo luogo, come contrappunto al gruppo di ragazzi narratori; in secondo luogo, e principalmente, per identificare le ragazze in un unico oggetto di desiderio. Esse non hanno voce né prima né dopo la loro morte, e rimangono un ideale, un sogno, quasi che non fossero reali – e non lo sono. Come lettori non ci è dato di conoscerle realmente: la loro identità di soggetti così come la motivazione che si cela dietro i loro suicidi rimangono speculazioni sia per il narratore che per il lettore.

Il romanzo è, in parole povere, pregno di male gaze. È un esempio riuscito di come questioni come l’individualità e la salute mentale femminile passino in secondo piano rispetto all’attrattiva sessuale che questi soggetti/oggetti femminili esercitano su chi narra la storia. E questa sessualità pervade ogni aspetto di questi personaggi, ma è una sessualità che riguarda soltanto chi le desidera e non loro stesse. A loro, infatti, non è concesso vivere questa sessualità in modo sano, non è concesso di esplorarla liberamente come invece è concesso ai ragazzi, che fantasticano su di loro ancora vent’anni dopo.

I coniugi Lisbon sono persone profondamente cattoliche e ciò li spinge ad esercitare un controllo estremamente vigile sulle figlie, soprattutto dopo il primo suicidio. Mesi dopo, quando una delle sorelle intrattiene una relazione con uno dei ragazzi, i genitori le ritirano dalla scuola per istruirle privatamente, il che priva ancora di più le ragazze di occasioni di socialità. Per questa fede cattolica due cose sono tabù: suicidio e sessualità, messi sullo stesso piano e interconnessi secondo il titolo stesso del romanzo. I genitori cercano quanto più possibile di reprimere la sessualità delle figlie, perché è peccato; i suicidi commessi dalle figlie non vengono affrontati, perché sono peccato. Per queste cinque sorelle, non c’è altro che la loro dimensione di oggetto sessuale: nel momento in cui i genitori, per evitare che le figlie possano dare seguito alle loro curiosità, impediscono loro di coltivare legami, dimenticano completamente la loro dimensione di adolescenti che, in quanto tali, necessitano conoscenze esterne. O almeno la facoltà di crearne.
Che i suicidi possano essere conseguenza del clima troppo oppressivo in cui le sorelle vivono quotidianamente è la possibilità più plausibile. Al lettore appare chiaro, sebbene il narratore continui ad arrovellarsi e a perseverare nel suo immaginario mitologico. Eppure, Cecilia, la prima a morire, si toglie la vita proprio in occasione di una piccola festa organizzata per far sì che le ragazze possano incontrare altri ragazzi, in risposta al suo precedente tentativo suicidio che, secondo il medico, era conseguenza della repressione dei suoi desideri. In definitiva, quindi, il motivo rimane sconosciuto.

Questo è funzionale al romanzo: conoscere la ragione, spiegare l’inspiegabile distruggerebbe l’illusione romantica che pervade la storia.
Il punto, però, non è necessariamente capire la ragione di queste morti. Il punto è: che valore avrebbero queste morti se non vi fosse un’esperienza maschile a raccontarne? Che valore avrebbero queste morti se le ragazze fossero state meno intriganti, meno irraggiungibili, meno belle? Il topos della ‘morte della bella donna’ presuppone che la donna sia bella e che l’uomo-artista, l’uomo-scrittore, l’uomo-osservatore sia attratto da lei perché la sua morte venga messa in scena.

Se così non fosse, la sua morte perderebbe di valore – perché la morte di una ‘brutta’ donna non interessa allo sguardo maschile e non viene rappresentata. Passa nell’oblio. Il topos impone che la bellezza di una donna rende la sua morte più tragica, più degna di essere raffigurata.

È uno dei motivi per cui, quando leggiamo un articolo sull’ennesimo femminicidio, c’è sempre la parentesi romantica su quanto fosse bella, o se non c’è scritto i commenti in risposta all’articolo saranno su quanto era bella – perché quella sua bellezza rende la sua morte un vero peccato, non è la morte in sé ad essere la disgrazia. Grazie al topos, artisti e scrittori cristallizzano nel tempo il corpo della donna, per sempre ad uso e consumo del loro sguardo. Non invecchierà mai, non perderà mai la sua bellezza. La morte è solo un danno collaterale.

Daniela Carrelli

violedimarzo

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