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L’antropologia è donna

In questo articolo andremo ad analizzare le difficoltà delle più grandi antropologhe ad affermarsi in un ambiente accademico ostile e non proprio ben disposto nei confronti della presenza femminile.

In seguito a spiacevoli fatti avvenuti nel 1840 presso la Word Anti-Slavery Convention di Londra, durante la quale alle due attiviste Lucretia Mott e Elizabeth Stanton, fu impedito di prendere la parola in pubblico proprio in quanto donne, esse decisero di fondare il movimento per i diritti delle donne negli Stati Uniti che ebbe il suo vero inizio con la Seneca Falls Convention del 1848: fu proprio qui che venne letta la famosa Declaration Of Rights and Sentiments, un documento redatto su modello della Dichiarazione d’Indipendenza americana, nella quale venivano elencate le ingiustizie compiute ai danni del genere femminile e viene affermata in modo deciso l’uguaglianza tra i sessi, ricevendo 68 firme di donne e 32 di uomini per il totale di 100 firme su 300 partecipanti.

E’ giusto affermare che grazie ai movimenti femministi di fine ‘800, si apre la strada per le antropologhe donne che cercano di trasferire le loro idee progressiste nella loro ricerca: le pioniere di questi studi furono Matilda Stevenson, Alice Fletcher e Elsie Parsons, che insieme ad altre sette studiose, fondarono la Women’s Anthropological Society of America (WASA) nel 1885.

I tempi erano ormai quelli giusti per dare il via alla presenza delle donne in questo nuovo settore, quello dell’antropologia. Fu da subito evidente che esse ricoprivano un ruolo fondamentale durante la ricerca presso la parte femminile delle popolazioni “tribali” prese in esame. Solo le donne etnologhe avrebbero potuto ottenere informazioni dettagliate sulla dimensione privata di altre donne. Matilda Coxe Stevenson, come scrisse uno studioso quasi cento anni dopo, fu la prima ricercatrice a ritenere donne e bambini “worth of notice”.

Ovviamente il percorso delle donne all’interno di questo settore non fu lineare per tutte, se Stevenson e Fletcher ottennero numerosi riconoscimenti, molte altre etnologhe non riusciranno nemmeno ad entrare a far parte del mondo accademico, rimanendo ancora ai margini di un ambiente molto selettivo e misogino.

L’analisi delle popolazioni “primitive” perpetrata dalle antropologhe portò a galla nuovi quesiti tuttora dibattuti, Elsie Clews Parsons è un’altra importantissima figura di cui parlare.

Parsons fu la prima allieva di sesso femminile del grande antropologo Franz Boas e fu anche la prima ad indagare un importante punto di svolta: “come si possono ritenere naturali o universali i nostri ruoli maschili e femminili, quando nelle società tribali essi sono diversi?”. Questa situazione definita “naturale” per comodità fa si che le donne non possano ambire a niente di più del diventare brave mogli o madri. I ruoli di genere sono soffocanti e stereotipati, per entrambi i sessi, portando gli esseri umani a soffrire e ad assestarsi in una situazione infruttuosa per tutti.

Parsons ebbe senz’altro il coraggio di pensare fuori dagli schemi e anche per questo spesso le sue idee furono derise e accantonate perché troppo radicali o avanguardiste: il “matrimonio di prova” fu solo una delle proposte che presentò all’interno del suo libro. La libertà di scelta individuale fu senz’altro il filo rosso che accompagnò la sua ricerca dall’inizio alla fine.

Proseguendo con la nostra analisi in modo diacronico, figure chiave dell’antropologia di genere di primo e metà novecento sono Ruth Benedict e Margaret Mead, che portarono avanti in modo brillante il quesito di Elsie Parsons riguardo i ruoli di genere tentando di chiarire il più possibile la questione. Le due ricercatrici, forse anche per i loro trascorsi personali (Benedict e Mead infatti ebbero una relazione) analizzarono anche il tema dell’omosessualità nelle varie culture. Sebbene sulla loro relazione non abbiamo dichiarazioni, sappiamo che fu fondamentale per entrambe: furono un supporto emotivo e d’incoraggiamento l’una per l’altra in quest’epoca ancora molto bigotta.

Margaret Mead si può definire una vera figlia dei fiori, il suo interesse per la pace, per le tematiche riguardanti la sessualità, per le tematiche sociali, la portarono ad essere un’icona nell’ambiente antropologico. Tutti gli studenti della facoltà leggevano i suoi scritti negli anni ’60 e la ritenevano una vera rivoluzionaria. “In un’epoca in cui Bob Dylan cantava The Times They Are a-Changing, il significato del cambiamento aveva una grossa rilevanza” racconta l’etnologa laureata alla Berkeley, Mary Pipher.

“Sex and Temperament” scritto da Mead nel 1935, è uno dei primi lavori che suggerisce quando la mascolinità e la femminilità riflettano dei condizionamenti esterni e culturali, non sono interamente determinate dalla biologia, ovviamente grazie all’avanguardia del tema, il testo diventerà negli anni successivi una pietra miliare per la riflessione sul genere.

Proprio alla fine degli anni ‘40, Simone de Beauvoir pubblica “Il Secondo Sesso”, negli anni in cui Lévi-Strauss rilascia dichiarazioni disturbanti per il mondo femminista nel suo libro “Le Strutture Elementari Della Parentela” in cui si definisce la donna “il bene di scambio”. Il testo di de Beauvoir è prima di tutto un’opera filosofica dove si parla del sé come sé di fronte all’altro (la donna è altro rispetto all’uomo) e si illustra come le donne siano obbligate a rinunciare alla loro autentica soggettività per accettare un ruolo passivo e alienato di fronte al ruolo attivo maschile.

Grazie alla ricerca svolta dalle donne sopra citate si sono posti numerosi quesiti riguardo al ruolo del genere femminile e solo grazie a questi interrogativi, negli ultimi anni, cerchiamo di dare risposte. Se prima il problema non era neanche presente, ora è chiaro ed è fondamentale risolverlo. Passo dopo passo le antropologhe che abbiamo esaminato in questa rassegna sono riuscite a farsi strada nell’ambiente accademico che le relegava al silenzio e hanno traslato la loro difficoltà fino al mondo esterno. In un mondo in cui le problematiche di genere erano secondarie perché il “sesso forte” non ne risentiva, è stato compito delle donne che sono riuscite ad ottenere udienza usare quest’ultima per presentare le preoccupazioni che accomunano tutte e insistere affinché queste venissero prese in considerazione.

Fonti: “Antropologia di Genere” di Giovanna Campani, professoressa di Antropologia di Genere presso l’Università di Firenze, Editrice Rosemberg & Selier, 2018.

violedimarzo

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