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Vanessa Nakate, paladina della giustizia climatica

Il cambiamento climatico tocca tutti, ma alcuni più di altri. E Vanessa Nakate lo dimostra associando clima ed etnia. Parte protestando da sola, per le strade dell’Uganda, arrivando a fondare il Rise up Movement, il movimento ambientalista africano.

L’attivismo

AP Photo/Luca Bruno

Vanessa Nakate, classe 1996, si avvicina all’attivismo climatico dopo un’intensa e prolungata ondata di caldo che travolge l’Uganda a fine 2018, diventando la prima attivista dei Fridays for future del suo Paese.

Non solo fonda il “Youth for Future Africa“, che in seguito si trasforma nel “Rise up Movement”, movimento volto alla sensibilizzazione sul cambiamento climatico, ma guida anche la campagna per la salvaguardia della foresta pluviale della Repubblica Democratica del Congo. Battendosi per uno dei più importanti polmoni del continente africano, si schiera contro esplorazioni minerarie, traffico illegale di legname e urbanizzazione selvaggia.

Nel biennio 2019-2020 Nakate, in collaborazione con Tim Reutemann, esperto di finanza climatica, dà inizio al Green Schools Project, un’iniziativa di sostenibilità ambientale nelle scuole volta a ridurre il consumo di legna e le emissioni di gas serra.

Nel dicembre 2019 partecipa alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP25) in Spagna; meno di un anno dopo la BBC la include nella lista delle 100 donne più illuminate ed influenti del 2020.

La questione razziale-climatica

Unsplash/Clay Banks

“Non si può avere giustizia climatica senza giustizia razziale. Non è giustizia se non include tutti”

È già stato introdotto in apertura – sia pure con una sfumatura diversa – lo stretto legame che sussiste tra giustizia climatica e razziale. “Siamo responsabili solo del 3% delle emissioni globali di Co2, ma ne subiamo molto di più le conseguenze”: l’Africa orientale ha sofferto la peggiore invasione di locuste del deserto degli ultimi 25 anni. Nakate vuole dar voce a una delle crisi più visibili del continente, che ha registrato, nel corso del 2021, circa 300 mila persone colpite da inondazioni, piogge torrenziali e frane.

L’attivista diventa portavoce di un continente sofferente, ma di cui non si parla a sufficienza, in cui oltre ai problemi ambientali se ne aggiungono altri di tipo sociale: il reclutamento di bambini nelle forze armate, l’aumento della mortalità infantile e la diffusione di malattie. In particolare, a causa della crisi climatica che impoverisce le famiglie, spesso si sceglie di precludere alle ragazze l’educazione, priorità dei figli maschi; è quindi probabile che le donne incorrano in matrimoni precoci, oltre a diventare le principali incaricate di percorrere lunghi tragitti per le loro famiglie esponendosi inevitabilmente alla violenza di genere.

Il problema, sostiene Nakate, è la disattenzione dei media. Si insiste nel dare ampio spazio agli incendi in California e in Australia, nel discutere della deforestazione in Amazzonia; paradossalmente l’Africa è il continente più colpito e al contempo quello di cui si sa e si discute di meno.
Ecco che l’attivista parla di “razzismo climatico”: la lavorazione e il trasporto dei combustibili fossili da parte delle prime economie del mondo danneggia la salute degli abitanti delle comunità afroamericane, latine, indigene e asiatiche, che tutt’ora rimangono ai margini della discussione globale sulla transizione ecologica.

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