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Messico: “Le ragazze rubate” e i cartelli del narcotraffico

“Adesso ti facciamo diventare brutta, disse mia madre. Guardai nello specchio mentre mi passava un pezzo di carbone sulla pelle. […] In Messico essere brutta è la cosa migliore che possa capitare a una bambina. Da piccola, mia madre mi vestiva da maschio e mi chiamava Ragazzo. Ho raccontato a tutti che mi era nato un maschio, diceva. Se fossi stata una bambina mi avrebbero rubata.”

Parla Ladydi García Martinez, che forse non esiste o forse il nome è l’unica cosa inventata di lei. La sua storia però è reale, viva tra una moltitudine di vite che le assomigliano.

Siamo nello Stato di Guerrero, Messico. A pochi chilometri si riesce a scorgere Acapulco, ex gioiello balneare sulla costa pacifica, considerato negli anni Sessanta meta del turismo hollywoodiano e che oggi si vede cadere a picco tra le braccia della criminalità organizzata.

Il villaggio di Ladydi si trova qui, tra le ceneri di un passato splendente ora immerso in un’epoca buia. Ed è un villaggio di sole donne. Gli uomini se ne sono andati negli States a cercare fortuna. Rimangono solo loro: le madri, le figlie e il loro dramma, profondo come le buche che sono costrette a scavare nel campo di granoturco davanti a casa, dove le bambine si calano appena sentono le ruote dei SUV passare sullo sterrato.

Bastava che i narcotrafficanti scoprissero che c’era in giro una ragazza graziosa e si precipitavano dalle nostre parti a bordo delle loro Escalade nere per portarsela via.

E nonostante i disperati escamotage inventati dalle madri, tra vestiti da maschio, carbone nero sfregato sulla pelle, denti colorati per fingere carie e capelli malridotti, qualche bambina i Narcos riescono a rapirla comunque. È, poi, nel vuoto lasciato dalla scomparsa che emerge l’inefficacia legislativa di uno Stato corrotto, che è terreno sempre più arido per lo sviluppo dei sistemi sanitari, educativi e di sostegno per le vittime e le loro famiglie.

In Le ragazze rubate, l’autrice Jennifer Clement scrive pagine che scottano come il sole incandescente del deserto messicano e permette a ciò che si nasconde nei sotterranei del mondo di uscire alla luce, che siano esse donne o verità nascoste. Ne toglie la terra dalla superfice, le illumina con la sua penna e le mostra al mondo. E il riflesso è così tagliente che acceca.

Il Messico non è un Paese per donne: il caso di Debanhi Escobar

Apparentemente una formula generalizzante e distopica, è invece quanto emerge dal rapporto di Amnesty International sulla realtà messicana di oggi: il Messico non è un Paese per donne. O meglio, è un paese in cui, se sei donna, sai che domani potresti essere la prossima di quelle 24.600 sparite di cui non rimane nulla, ad eccezione delle foto che continuano a tappezzare i muri delle città come carta da parati e destinate a sbiadirsi con il tempo, nella lentezza e rassegnazione di un governo incapace di contrastare l’impunità e le falle legislative.

Solo il 30 aprile scorso, è stata organizzata una protesta a cui hanno preso parte migliaia di donne a Ciudad Juárez, nello stato di Chihuahua. La città, tristemente nota per essere una delle più violente del Messico, è stata rinominata dai locali “il cimitero delle donne”. È proprio qui infatti, che piccole croci rosa vengono poste sulle sepolture delle vittime della furia femminicida. Il cimitero ne è pieno.

Il 23 aprile, solo pochi giorni prima della protesta di Ciudad Juárez, l’ultimo fatto che ha sconvolto il Messico: è stato ritrovato il corpo della giovane Debanhi Escobar, 18 anni, scomparsa in Nuevo León dopo una festa con gli amici e ritrovata morta in una cisterna di un hotel dopo tredici giorni di ricerche. Durante le indagini sono emersi i corpi di altre cinque donne che erano scomparse.

I cartelli del narcotraffico

Alla base di un problema nazionale come quello dei femminicidi in Messico che fa leva sulla corruzione del governo e sulle insufficenti azioni giudiziarie per combatterlo, vi è una realtà intrinsecamente collegata alla storia messicana contemporanea, quella dei cartelli del narcotraffico.

La nascita dei cartelli, organizzazioni criminali che operano a livello nazionale e internazionale, risale agli anni Ottanta, quando l’agente di polizia giudiziaria federale Miguel Ángel Félix Gallardo si mise a capo del commercio illegale di stupefacenti tra il Messico e gli Stati Uniti. Ciò diede inizio all’instaurazione di legami sempre più stretti con il sanguinario cartello colombiano di Medellín, gestito da Pablo Escobar. Negli anni Novanta, con la crisi e il successivo declino dei cartelli colombiani, il Messico ottenne velocemente il primato nella gerarchia criminale, con la nascita del Cartello di Sinaloa, il Cartello di Tijuana, il Cartello di Juárez e il Cartello del Golfo.

Negli ultimi anni, i cosiddetti narcos hanno preso il controllo diretto di vaste aree del territorio messicano e, attraverso l’esercizio della violenza, esercitano una sempre più crescente influenza nella società e nel sistema politico nazionale. La corruzione è oramai fenomeno endemico, come lo sono gli omicidi. Solo nel 2021 ne sono stati registrati 33.308, una media di 91,25 morti al giorno.

Le giovani donne occupano una percentuale allarmante in questa classifica nera, in quanto risultano essere le più esposte al traffico di esseri umani, all’impiego come corrieri della droga, allo sfruttamento sessuale, schiavitù, rapimenti e omicidi. Un ciclo di vessazioni con una traiettoria ben precisa, che mira a colpire le donne in quanto donne, in un Paese dove la misoginia si nasconde in ogni anfratto e, con rapidità epidemica, si propaga in ogni ceto sociale. L’attenzione generale, però, è distratta, il tessuto legislativo lacunoso, sfibrato. Le indagini vengono rimandate al domani.

E domani, intanto, altre Debanhi verranno uccise, altre Ladydi si nasconderanno sottoterra per salvarsi la vita e altre croci rosa verranno collocate nel sordo silenzio del cimitero di Ciudad Juárez.

Ciudad Juárez, Chihuahua.

“Una donna scomparsa non è che una foglia fra le tante finite in un canale di scolo durante un nubifragio. A nessuno importa di Ruth, aggiunse mia madre. L’hanno portata via come si ruba una macchina.”

J. Clement

Francesca Feder

Francesca Feder

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