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Inscatolate: il sistema di tutela maschile sulle donne in Arabia Saudita

«Loujain è a casa, Loujain é stata rilasciata.»

È il 10 febbraio 2021. Le dita di Lina Al-Hathloul scorrono rapide sui tasti. Ricontrolla, scandisce le parole una ad una, twitta. È successo davvero? L’incredulità è messa a tacere dall’evidenza. Sua sorella ora è proprio lì, davanti a lei. Le occhiaie scure le solcano severe il volto, lo induriscono. Le ciocche di capelli grigi che lo incorniciano sono la prova di un tempo che non è tempo, nelle prigioni saudite. Ché ogni secondo dietro le sbarre è dilatato e porta con sé mille anni, e gli anni accumulati sono carichi faticosi da portare dentro di sé. Così si rovesciano al di fuori, si fanno largo sul corpo. Le loro tracce affiorano negli occhi, nella pelle, tra le labbra stanche. Ne fanno testimonianza.

Ma Loujain é stata rilasciata, ora. Sua sorella è finalmente libera, dopo 1001 giorni di prigionia.  

La storia di Loujain Al-Hathloul inizia sei anni prima, nel lontano 2015, quando l’attivista venticinquenne decide, una mattina di dicembre, di salire sulla sua macchina e guidare con regolare patente ottenuta negli Emirati Arabi, partendo da Abu Dhabi, con destinazione Arabia Saudita. È lì, nel Paese più grande della penisola arabica con i suoi 32 milioni di abitanti, che nel XXI secolo alle donne è proibito guidare. Lei, però, decide di uscire di casa, attraversare il viale sterrato, salire in macchina. E mettere in moto. Per ogni donna a cui la libertà viene sottratta. Per ogni governo che si ostina a sottrarre.

Loujain verrà arrestata appena varcato il confine e da qui inizierà il suo calvario. Perché, dopo essere stata rilasciata temporaneamente, verrà di nuovo rapita dalle forze dell’ordine saudite e trasferita nel carcere di massima sicurezza di Dahaban, a 40 km da Riyadh, dove subirà torture ordinarie, stupri e isolamenti forzati, senza cibo né acqua. Tutto ciò proprio nello stesso anno in cui il principe Bin Salman, membro della dinastia reale Al Sa’ud, sale al potere presentandosi come riformatore dell’Arabia Saudita con l’ambizioso e futuristico progetto di Neom per Vision 2030, descritto come il modello urbano del domani, nel quale l’umanità si evolve senza recare danno al pianeta. Proposta che lascia spazio ad un enorme controsenso ideologico, rivestito da un artificioso involucro di apparente modernità-progresso al di sotto del quale si celano enormi lacune sociali.

La legge di tutela maschile

Non poter guidare una macchina, in Arabia Saudita, è solo una delle tante forme di controllo a cui le donne vengono sottoposte ogni giorno. Perché nel regno della famiglia Al Sa’ud, la loro vita è interamente decisa, dalla nascita fino alla morte, da un uomo. Ognuna ha infatti un tutore, più comunemente chiamato guardiano, “wilaya”, rappresentato dal padre, dal marito o addirittura dal figlio in caso di vedovanza, che ha il potere di definirne qualsiasi aspetto dell’esistenza, compresa la sfera sanitaria e privata. Dal deposito in banca alla visita medica, dal pagamento di un affitto alla possibilità di viaggiare, di lavorare, semplicemente di spostarsi, vi è l’obbligo di supervisione da parte dell’uomo, senza il consenso del quale anche l’azione più semplice diventa crimine. Le limitazioni imposte dalla tutela maschile ricoprono ogni ceto sociale, ogni anfratto dell’universo femminile, che vive in costante subordinazione ai permessi concessi.

Questo significa, nel più comune dei casi, che se una donna ha bisogno di una visita medica e l’uomo non può o non vuole acconsentire, il medico non potrà visitarla. Oppure, nei casi più estremi, che se una donna ha scontato una pena in prigione, al momento del rilascio è il wilaya che le concede la libertà definitiva. Se egli ritiene che questa abbia disonorato la famiglia e non sia moralmente accettabile averla nuovamente con sé, lei torna ad essere una prigioniera a tempo indefinito.

Il sistema di cui stiamo parlando rientra interamente nella legislazione della petromonarchia saudita, basata sull’interpretazione più conservatrice ed estremista dell’Islam, il Wahhabismo, che per la dinastia reale di Riyadh è pilastro atavico incontrastabile. Non è un caso, però, che teologi e giurisprudenti musulmani considerino questa struttura sociale come un’interpretazione meramente patriarcale senza prove concrete all’interno del Corano, finalizzata al puro controllo di una grande percentuale di popolazione.

Boxed-in, inscatolate

Provate per un secondo a fare una panoramica sulla vostra vita. E osservatene dall’alto ogni aspetto che la rende degna di tale nome: il vostro muovervi incessante, gli automatismi ordinari, le possibilità smisurate e le libere scelte. Soprattutto le libere scelte. Pensate all’immensità di tutto questo e poi immaginate di doverla inserire all’interno di una scatola. Nello specifico, una di quelle in cui ci sta dentro appena il minimo indispensabile. Poi bisogna iniziare a sacrificare, lasciando fuori tutto il resto. Ed è una scatola progettata da terzi. Perché francamente, se avessero interpellato voi e la vita che vi appartiene nella sua progettazione, l’avreste senz’altro pensata un po’ più grande. Così non si respira.

Ma no, non esiste alcuna possibilità di cambiare le cose. Funziona così, vi dicono. E mentre il mondo muta rivoluzionando ogni giorno sè stesso, mentre i governi in corsa si definiscono propulsori di modernità e futurismo, la vostra scatola rimane l’apogeo del paradosso, il paradigma di involuzione.

Il rapporto di Human Rights Watch si chiama così, «Boxed In», inscatolate. È la condizione di milioni di donne che, in Arabia Saudita, vivono dentro ai bordi delle scatole che i padri e i mariti disegnano per loro. Questa forma di controllo e di disuguaglianza strutturale le pone sostanzialmente in una posizione di cittadine di serie B, cittadine a metà. Solo dal 2015, ad esempio, grazie a un decreto emanato dal re saudita Abdullah Bin Abdelaziz nel 2011, le donne possono partecipare alle elezioni sia come votanti che come elette, ma le controversie in merito sono molte, perché anche in sede elettorale vige il controllo dell’uomo che è sovrano, sempre e comunque. È stata, quindi, una conquista o una riforma di facciata?, bisogna chiedersi.

Oggi, di Loujain Al-Hathloul ce ne sono molte, unite tutte in un’unica lotta che non fa paura perchè collettiva. Come il movimento Women To Drive, che rivendica il diritto delle donne a guidare, gli hashtags #IamMyownGuardian e #StopEnslavingSaudiWomen stanno attirando l’attenzione non solo di chi è ostile al cambiamento, ma anche e soprattutto della stampa internazionale, che inizia a fare luce sull’oblio in cui risiedono milioni di donne­, intrappolate tra le mura delle scatole costruite su misura per loro.

Human Rights Watch, Dieci motivi per cui le donne saudite fuggono.

Francesca Feder

Francesca Feder

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