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Mahsa Amini: non smettete di gridare il suo nome

“Puoi cancellare il corpo, ma il nome rimane nel vento. Dunque non smettete di gridare il suo nome, solo così la verità sarà viva tra queste strade.”

Scritta su un cartellone di protesta nelle strade di Teheran.

Mi chiamo Mahsa Amini e ho ventidue anni. Solo ventidue. E avrò ventidue anni per sempre.

La sera di martedì 13 settembre, all’uscita della metropolitana di Haghani, sono stata arrestata dalla polizia religiosa di Gasht-e Ershad di Teheran, Iran, dove mi trovavo in vacanza con la mia famiglia. No, noi non siamo di qui, noi veniamo dal Kurdistan iraniano. Siamo sunniti. Io, però, è qui che voglio studiare. Per questo sono partita con mia madre, mio padre e mio fratello verso la capitale. Per sistemare le procedure di ammissione all’Università di Ourmia.

Poi, una sera, sono stata arrestata. L’hanno fatto per una ciocca di capelli fuori posto che fuoriusciva dal mio velo, dal mio hijab. Questo è quello che credo. Ma non lo saprò mai, non ho fatto in tempo a rendermene conto. Sono stata prelevata con la forza mentre camminavo insieme a mio fratello di diciassette anni. Sono stata colpita alla testa con un manganello, dalla polizia morale che vigila le strade di Teheran. Che punisce le donne che non obbediscono.

L’hanno fatto davanti a lui, si, davanti a mio fratello di diciassette anni. E mentre lui cercava di salvarmi, io intanto morivo.

Mi chiamo Mahsa Amini e sono stata uccisa nel settembre del 2022 dalla polizia iraniana che ha preso il mio corpo a bastonate. Sulle mie gambe, sulle mie braccia, sulla mia testa. Emorragia cerebrale.

Che strana coincidenza la vita. Il velo che copre la testa e la morte che parte proprio da lì.

Hijab in Iran

Nella Repubblica Islamica d’Iran, ciò che un tempo era l’antica Persia, il velo rappresenta da sempre tema di discussioni e divisioni politiche. Nel 1936, in tempi lontani soprattutto ideologicamente, quando l’Iran ancora non era un governo teocratico, lo scià Reza Pahlavi decretò lo Kashf-e Hijab, tradotto come “svelamento”. Il divieto, quindi, di utilizzare il velo islamico in pubblico, come slancio propulsore verso un’occidentalizzazione forzata e coercitiva. Ciò fu interpretato al tempo, dal mondo femminile, come un abuso, in quanto il velo fino a quel momento aveva rappresentato parte integrante di una cultura antichissima, e vietarne l’utilizzo tanto da renderlo illegale segnava l’inizio di un processo finalizzato a limitare, negli anni a seguire, l’espressione delle libertà individuali di ogni cittadino.

Nel 1979, anno simbolico per il Paese, lo scià Mohammad Reza Pahlavi, figlio di Reza Pahlavi, fu costretto a fuggire a causa di ciò che, da quel momento in poi, delineerà per sempre un’inversione di rotta focale nella storia iraniana: la rivoluzione islamica, o altresì chiamata rivoluzione khomeinista. L’ayatollah Khomeini, infatti, noto leader religioso di confessione sciita, prese il posto al potere sconvolgendo gli equilibri della nazione, autoproclamandosi Guida Suprema e dando inizio ad una rigida teocrazia islamica anti-occidentale e radicale, dove le donne iniziarono a subire limitazioni fortissime e pene corporali in caso di ribellione. Ad ognuna di loro, trovata senza velo, venivano riservate 74 frustate.

Nel giro di pochissimi anni, dunque, il velo passa dall’essere un simbolo di liberazione dallo scià di Persia, ad un simbolo di oppressione e controllo sui cittadini per mano del regime degli ayatollah sciiti, che deterranno, negli anni a venire, sia il potere religioso che quello politico.

Chiarezza

L’omicidio di Mahsa Amini ha messo a nudo la natura del regime degli ayatollah: il disprezzo verso la propria popolazione, il controllo sulle libertà individuali e l’imposizione forzata tramite l’utilizzo della violenza.

Dopo la sua morte, le proteste sono scoppiate in ogni parte del Paese, concentrandosi in primo luogo nel Kurdistan iraniano, luogo d’origine della famiglia e zona discriminata maggiormente da Teheran. Infatti, nonostante la retorica panarabista di fratellanza, il governo sciita discrimina qualsiasi etnia appartenente ad una confessione diversa, in questo caso quella sunnita. Ma per le strade iraniane, nonostante la feroce repressione, è iniziata una vera e propria rivoluzione che ha la voce di Mahsa e di tutti i cittadini come lei brutalmente assassinati dal loro stesso governo. Le donne hanno deciso di tagliarsi i capelli in segno di rivolta. Secondo l’Iran Human Rights, i morti sarebbero almeno 80, e solo nella piccola provincia settentrionale di Mazandaran 450 persone sarebbero state arrestate nei primi giorni di proteste. Ora la cifra avrebbe raggiunto i 1000. I feriti non si contano più e l’esercito, nel tentativo di soffocare le manifestazioni pacifiche, fa fuoco sulla folla con proiettili e lacrimogeni.

Con sei proiettili è stata uccisa, il 24 settembre, anche Hadis Najafi, “la ragazza con la coda”. Vent’anni e i capelli biondi, raccolti in uno chignon, girata di spalle, pronta ad affrontare la repressione della polizia. È questo il suo ritratto, emerso in un video diventato virale prima del blocco di internet da parte del governo. Gesto che però non è bastato a nascondere le atrocità commesse.

Hadis Najafi, 20 anni, uccisa il 24 settembre 2022.

È doveroso chiarire, però, contrariamente a quanto spesso viene raccontato dai media occidentali e che si converte rapidamente in strumentalizzazione e incentivo verso un sentimento di islamofobia, che il femminismo islamico non lotta contro il velo, ma contro l’obbligo del velo, quindi contro qualsiasi limitazione della libertà individuale in merito a decisioni riguardanti il proprio corpo e la sfera culturale e religiosa.

Abbiamo avvicinato negli ultimi decenni talmente tanto gli obbiettivi sull’Islam, stigmatizzandolo, che abbiamo perso però le proporzioni e le relazioni con il contesto circostante, empatizzando con la vittima senza farci domande sul background storico e politico della nazione in cui vive.

Ecco perchè i moti di protesta iniziati con l’omicidio di Mahsa Amini ci riguardano tutti. Ecco perché  rappresentano una delle più significative lotte della nostra generazione e di quella futura. Proprio perché non sono una lotta religiosa, contro l’Islam. Sono una lotta personale e comunitaria ma politica, per difendere le libertà di scelta come cittadini. Questo contro tutti i governi che, in ogni parte del mondo, sotto vesti e pretesti differenti, esercitano il controllo su di noi.

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Francesca Feder

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