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Puttane in rivolta: lotta alla stigmatizzazione sociale del sex work

Lo scorso sabato 17 dicembre è stata celebrata la giornata internazionale contro la violenza su chi pratica sex work, lo apprendiamo dal Collettivo transfemminista di sex worker e alleat* Ombre Rosse, che si occupa di attivismo a supporto della decriminalizzazione del lavoro sessuale, della lotta contro lo “stigma della puttana” e della rete di sostegno all’organizzazione sindacale e al riconoscimento dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori dell’industria del sesso.

Perché proprio il 17 dicembre? Nel 2003 Gary Ridgway fu condannato per l’omicidio di più di 50 donne che erano per lo più sex worker. Egli confessò il movente dichiarando che scegliere sex worker come vittime era più “semplice” per lui, in quanto si tratta generalmente di persone meno tutelate dalla legge e con meno diritti. In memoria di quelle vittime del cosiddetto “assassinio di Green River” fu organizzata una veglia davanti al comune di San Francisco.

Puttana o sex worker?

Quali sono le implicazioni linguistiche e sociali di questi termini? È noto che il termine puttana sia ampiamente utilizzato in senso dispregiativo non solo per riferirsi propriamente alle lavoratrici sessuali, ma anche in altri ambiti per colpire verbalmente donne che si trovano ad occupare una posizione di potere o che stanno rivestendo un ruolo antitetico rispetto ai precisi limiti imposti dall’egemonia patriarcale. Se una donna va oltre queste regole o se si appropria di caratteristiche e comportamenti tipicamente associati al genere maschile, ecco che viene “punita” con l’etichetta linguistica dello slur “puttana”.

Ma che cosa succede quando un gruppo socialmente marginalizzato ed etichettato con uno slur decide di rivendicare spazio, diritti e voce nel dibattito politico sulla propria condizione? Succede che si riappropria di quello slur e ne fa strumento di orgoglio e di lotta. Ecco che “puttana” è diventato un termine che viene spesso rivendicato da molti e molte sex worker per decostruire lo stigma che c’è intorno al mondo della prostituzione, uno stigma che è pura violenza patriarcale volta a demolire la dignità di chi fa lavoro sessuale, considerandolo immorale e non al pari di tutti gli altri lavori.

D’altra parte, il termine puttana è carico di tutta una storia di marginalizzazione, disprezzo e repressione che è impossibile ignorare. Per questo motivo utilizzare il termine sex work/sex worker è talora preferibile allo scopo di sottolineare la validità sociale della professione e di riconoscere dignità e diritti ai lavoratori e alle lavoratrici sessuali.

Stigma della puttana: depotenziamento e privazione di diritti.

Le conseguenze dello stigma oltre ad essere personali e psicologiche, sono anche di carattere sociale. Molte lavoratrici sessuali hanno testimoniato la loro sfiducia nelle istituzioni: ogni qual volta si sono ritrovate vittime di abusi e violenze hanno taciuto temendo di non essere credute, o addirittura sono state scoraggiate dagli stessi avvocati che hanno sconsigliato loro di procedere per vie legali in quanto, diciamocelo, quella di una puttana che viene violentata è una “causa persa” in partenza, perché è ovvio che se l’è andata a cercare, che cosa può sperare di ottenere? E se quella sex worker è anche una donna migrante, una donna trans e migrante, o una donna senza regolare permesso di soggiorno… le possibilità di ottenere giustizia diventano un vero e proprio miraggio.  

Le argomentazioni delle politiche abolizioniste sono spesso quelle relative alla tratta e allo sfruttamento delle donne migranti. La tratta esite e non è lavoro sessuale, perché semplicemente non è un lavoro ma è una schiavitù, una coercizione. La schiavitù sessuale è violenza, è abuso, e va combattuta al pari di tutte le altre forme remote e moderne di schiavitù. Ma pensare di combattere la tratta combattendo le sex worker è insensato, così come vietare l’aborto: la criminalizzazione del lavoro sessuale non determina l’abolizione effettiva dello stesso, ma favorisce le condizioni precarie, pericolose e violente nelle quali questo lavoro si svolge; toglie diritti a chi diritti già non ne ha in partenza.

Se una donna migrante che lavora come prostituta dichiara – come spesso accade – che, data la sua situazione economica e la sua posizione sociale, quella di svolgere questo lavoro è l’unica alternativa che ha, in che modo abolire il lavoro sessuale potrebbe esserle di un qualche aiuto? Criminalizzare quell’unica alternativa non solo non la toglierà dal lavoro sessuale in strada, ma la esporrà a violenze su violenze. La soluzione non è abolire il lavoro sessuale, ma creare alternative per mettere le persone in condizioni ottimali di scelta. In questo modo non solo chi fa sex work come unica alternativa non voluta di sostentamento smetterà di fare sex work, ma anche chi fa altri lavori considerati “unica alternativa” alla povertà smetterà di svolgerli. Inoltre, il mondo del sex work è una costellazione di persone diverse con esperienze diverse: non sono tutte storie di tratta e povertà.

Di solito chi legifera sul lavoro sessuale in Italia non ha mai ascoltato le voci delle organizzazioni di sex worker e le loro esperienze dirette. Come ha scritto Giulia Selmi in “Sex work. Il farsi lavoro della sessualità”:

Le sex workers hanno sostenuto che gli aspetti negativi connessi al mercato del sesso non sono imputabili al suo contenuto specifico – ovvero scambiare prestazioni sessuali per denaro -, ma alle condizioni entro cui esso si esercita. È il livello di stigmatizzazione sociale, i contesti materiali dove si esercita, il livello di repressione delle forze dell’ordine o l’essere o meno cittadine ad esporre le sex workers a violenza e marginalità sociale.

Femminismi e sex work

Il tema del sex work è uno di quei motivi per cui è importante parlare di femminismi e non di femminismo. Infatti, c’è stata tutta una corrente di femministe abolizioniste che hanno ferocemente condannato il lavoro sessuale, quale strumento di potere patriarcale sulle donne-oggetto che “vendendo il proprio corpo” perdono la loro dignità. Questa lettura del lavoro sessuale è in realtà piena di insidie e di contraddizioni, ed è espressamente non femminista. In primis una persona che fa sex work non sta vendendo il suo corpo, il quale resta di sua proprietà prima, durante e dopo l’atto o la performance sessuale. Ciò che vende è un servizio, una prestazione che richiede l’uso del corpo, di alcune sue proprietà e di uno dei suoi molteplici funzionamenti dietro un accordo contrattuale e di un compenso economico. Leggendo questa descrizione sembra che possa rappresentare moltissimi altri mestieri, eppure è proprio ciò che si verifica anche nel lavoro sessuale: è un lavoro, e in quanto tale deve essere adeguatamente retribuito; i diritti di chi lo esercita nel reciproco consenso devono essere tutelati e regolamentati in termini di salute e sicurezza. In quest’ottica la sex worker non è oggetto ma soggetto, parte attiva del suo stesso processo decisionale di autodeterminazione. Uno Stato-welfare che tuteli questa e altre forme di lavoro, è uno Stato che fa sì che le sex worker possano essere messe in condizioni di scegliere se fare o meno il lavoro sessuale.

Le correnti del femminismo abolizionista hanno avuto risonanza soprattutto in Svezia, contribuendo alla nascita del cosiddetto “modello scandinavo” di legislazione in materia di prostituzione. Questo è un modello che punisce i clienti e non le sex worker ma di fatto danneggia indirettamente anche le sex worker, le quali non sono poste nelle ottimali condizioni di vita, di lavoro, di tutela sindacale e di retribuzione. Il cliente che sa di commettere un illecito sarà potenziato a sfruttare il lavoro sessuale con la scusante della sua “messa in pericolo”, la sex worker sarà depotenziata nel far valere i propri diritti.

In una società in cui viene perpetuato lo stigma della puttana, le vittime di tale stigma non sono soltanto le sex worker ma lo sono tutte le donne. Questo perché siamo chiamate puttane quando ci appropriamo delle scelte che riguardano la nostra sessualità e più in generale la nostra libera espressione al di là degli stereotipi di genere. Siamo chiamate puttane perché puttana è un insulto, un dispregiativo che sta a significare che sei andata oltre l’eteronormatività, che ti sei spinta dove non dovevi, ti sei sottratta allo squilibrio di potere nel quale il tuo ruolo era stato tracciato e hai osato essere di più, e cioè hai osato essere uguale.

Quanti numeri ci sono tra 0 e 1? Infiniti. Non siamo sante o puttane: siamo sante, puttane e tutte le infinite sfumature nel mezzo. Essere l’una o l’altra è una dicotomia inventata dal patriarcato. Essere l’una o l’altra non fa alcuna differenza sociale e scegliere chi essere non ha alcuna implicazione morale.

Dominica Lucignano

Dominica Lucignano

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