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Revenge porn: non chiamatelo così

Chiamare le cose con il nome giusto significa attribuirgli il giusto valore. Lo vediamo ogni giorno con i giornali, che si occupano di casi di femminicidio o stupro. Oppure, con l’atteggiamento restio di una gran fetta della popolazione a definire il catcalling come molestia sessuale. Ancora, con i discorsi d’odio che impazzano sul web nei confronti di donne, attiviste o categorie marginalizzate. Nel momento in cui il fenomeno viene inquadrato nella sua definizione più esaustiva e corretta, confrontarsi con esso diventerà più semplice. E in questo marasma di parole erroneamente utilizzate, la definizione revenge porn non è da meno.

Cos’è il revenge porn

A livello giuridico, l’ordinamento italiano definisce questo reato come la condivisione di materiale intimo, sia video che foto, di una persona senza il suo consenso. In Italia, si è largamente diffuso in seguito al suicidio di Tiziana Giglio – o, per i più, Tiziana Cantone. Dopo la diffusione non consensuale di alcuni video di atti sessuali che la ritraevano, ha esposto denuncia. Alla fine, non solo il caso è stato archiviato, ma è stata a sua volta accusata di calunnie nei confronti degli accusati, e il 13 settembre del 2016 si è suicidata.

Il revenge porn in Italia

Da allora, anche in Italia si è presa coscienza dell’esistenza di questo crimine e delle sue possibili conseguenze. Tant’è che, a livello giuridico, si è costruito un quadro normativo a riguardo. Il cosiddetto “Codice Rosso”, la legge 19 del luglio 2019, ha introdotto la fattispecie del comunemente detto revenge porn all’interno del codice penale. Infatti, ha delineato il reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. In più, chi ne è accusato rischia da uno a sei anni di reclusione e una multa da 5000 a 15000 euro. E se da un lato punisce non solo chi divulga per primo il materiale ma anche chi lo diffonde successivamente, dall’altro lato si può esporre querela solo in un arco di sei mesi.

Perchè non bisogna parlare di revenge

Aldilà delle considerazioni giuridiche, è importante ragionare sulla definizione del fatto in sé. Se, infatti, la legge parla chiaramente di diffusione non consensuale di materiale intimo, il termine che riassume il concetto, utilizzato sui mezzi di comunicazione, è revenge porn. Ma la problematicità di queste due parole può essere controproducente e dare spazio a fenomeni che ormai conosciamo.
Il termine revenge, in inglese, significa vendetta, e vorrebbe individuare l’intento di chi commette il reato: castigare un’altra persona che ha commesso, per prima, un torto. Insito, quindi, nel termine revenge c’è la colpa iniziale che deve essere punita. In questo modo, si ammette che la vittima abbia in tutti i casi la responsabilità di aver girato dei video o scattato delle foto e, per questo, debba essere castigata.
Si ritorna, ancora, al victim blaming: in un mondo dove è inaccettabile che le donne possano trarre piacere dall’esperienza sessuale, è giusto incolparle del loro atteggiamento peccaminoso e lascivo e, quindi, della vendetta messa in atto.

Perchè non bisogna parlare di porn

Ancora, il cossidetto revenge porn porta un altro fardello terminologico. Manca, infatti, il consenso. Il porno si fruisce, come contenuto erotico, ed è costruito appositamente dagli attori e da chi sta dietro la videocamera. E, per quanto si debba giustamente discutere dell’esigenza di un porno più etico e inclusivo, dovrà comunque avere il consenso dei partecipanti per essere ripreso, caricato e diffuso. Quindi, si può davvero parlare di porno di fronte a un materiale che, se acquisito con il consenso della vittima, è stato diffuso senza di esso? Quel contenuto, infatti, non è stato concepito come porno: non voleva essere in alcun modo girato ad altre persone per il loro piacere.
Cambiare, quindi, il termine ampiamente usato dai giornali, social e mezzi di comunicazione, servirà a darne un quadro più efficace, chiaro ed esaustivo. La diffusione di materiale intimo non consensuale non è porno e non è vendetta. Solamente, è l’ennesima, insaziabile, feroce dimostrazione di potere del genere maschile su quello femminile.

violedimarzo

violedimarzo

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