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Oltre la performatività: L’arte drag raccontata da Laryssa Coifashi

Non più solo drag queen e drag king, ma drag people: l’arte drag è un fenomeno culturale in continua evoluzione, con intersezioni di vario genere tra moda, teatro, sessualità, identità e politica.
Andiamo ad esplorare questo mondo insieme a Laryssa Coifashi, drag artist padovana con cui abbiamo fatto una chiacchierata.

Cos’è l’arte drag e qual è la sua storia?

Il drag è una forma d’arte performativa. Il suo punto di forza enorme è il gioco con l’identità e con questo intendo proprio il rompere le norme di genere. In che modo? O parodizzandole, mettendo in ridicolo i ruoli di genere performandoli oppure imitandoli. Come dice Butler, se io performo il genere talmente bene che magari non te ne accorgi e poi ti dico “no è tutto un trucco”, ti ho dimostrato che quello che tu vedi ti può ingannare e che quindi il genere è una cosa che impari.

Per dare un po’ di tracce storiche, il drag come “impersonare” un genere (femminile, in questo caso storico preciso) è da rintracciarsi nel teatro shakespeariano, dove per il clero e per quella che era la norma del tempo le donne non potevano andare in scena. E se le donne non potevano recitare, chi le interpretava? Gli uomini.
Andando un po’ più avanti nel tempo, in Inghilterra nel 1700 il drag veniva fatto nelle Molly Houses, luoghi in cui le persone omosessuali si potevano ritrovare, e in questi ritrovi sicuri potevano esserci delle persone drag. Mentre in America, circa un secolo dopo, il drag (principalmente come female impersonation) trova spazio negli spettacoli di Vaudeville.

Il drag che vediamo oggi è tuttavia molto diverso. A diffondere l’arte drag nella corrente mainstream è stato il programma Rupaul’s Drag Race. L’arrivo del drag nella cultura di massa ha, però, tolto moltissimo sia alla rappresentazione che alla storia di tale forma d’arte: com’è noto, la partecipazione è stata spesso limitata alla figura della drag queen, e molto del lessico del programma trae origine dalla Ballroom Culture, che in realtà ha una storia e delle origini molto più complesse.

Quali tipologie di drag esistono?

E’ un’isola che secondo me non abbiamo esplorato del tutto. Quelli più conosciuti sono drag queen, drag king, drag artist, bio queen e bio king. Si tratta di definizioni e come tali possono avere, in alcuni casi, dei limiti. All’interno di un campo così libero, a meno che non sia la persona a voler definirsi, per me non esistono etichette.
Allo stato attuale esistono queste cose ma ne esisteranno altre cinquecento, è una cosa che ha a che fare con l’espressione di sé.

Mi hai parlato dell’arte drag a livello storico, di come sia nata e di come si sia evoluta. Ma cosa rappresenta per te l’arte drag?

Per me mettermi nei panni di Laryssa Coifashi è tirare fuori la parte più vera di me.
Il drag è estremamente terapeutico, in un certo senso, perché è quella possibilità di rendermi presente a me stesso, a delle persone, ad un pubblico, nella modalità più libera possibile.
Poi per me il drag è comunità. Quando sei lì a truccarti per tre o quattro ore, se lo fai con le tue sorelle e fratelli è un’altra cosa. E soprattutto è un continuo feedback, è avere altri occhi.
Io faccio drag in un collettivo e il mio gruppo drag è uno di quei posti dove riesco a vivere le relazione con l’altro come una cosa senza difese. Non è una roba dove ci troviamo e facciamo tre ore di coreografia, non è vederci e lavorare solo sullo spettacolo, c’è anche quella parte performativa ma spesso include anche i nostri vissuti, quello che siamo, paure, timori, difficoltà, e per me è una cosa che non ha prezzo, al di là di quello che poi succede in scena.

Da sinistra: Cordelia Flame, La Dottoressa Adele Lacune, Calda Merini, Laryssa Coifashi, theMorgana.
Da dove deriva il tuo nome da drag artist?

Il nome Laryssa Coifashi viene dalla mia infanzia a Viterbo, un luogo dove tutto ciò che è fuori dalla norma, da quello che è eteronormato, da quello che è patriarcale ecc. non ha un’esistenza facile. C’era la costante angoscia di subìre crimini d’odio perché eri una persona diversa. Quando ho pensato a quale cosa mi avesse sempre impedito di esprimermi liberamente la risposta era: la paura di fare la rissa con i fasci.
E il drag per me è stata la risposta non diretta, da lì è nato Laryssa Coifashi, un nome divertente che fa ridere di una cosa che a me ha sempre spaventato. Non l’ho scelto solo perché è divertente, ma perché per me questo nome significa smettere di avere paura di me stesso.

Quando hai iniziato ad esibirti come drag artist e perché hai iniziato a farlo?
Foto di Andrea Chenich.
Laryssa Coifashi all’evento “Domingo Drag”, Hangar Teatri Trieste.

Io prima in realtà facevo dei monologhi, dei giochi di parole per dei locali a Padova, ed è una cosa che ho sempre trovato molto bella ma l’ho sempre sentita anche come incompleta. In pandemia mi è stato proposto di fare uno spettacolo drag a Latina, e mi sono messo a fare una parrucca con la gomma piuma, un vestito con le maniche a sbuffo… insomma è iniziata proprio come una cosa creativa, che ha generato poi tutta una serie di domande su di me.
Nel preparare questo spettacolo sono stato cinque giorni con altre persone che facevano drag, e loro si esprimevano in una maniera così forte, così dirompente, come se l’avessero fatto da una vita, e vederlo fare in quel modo per me è stato una coperta, mi sono sentito a casa, pur non conoscendo nessuno. Cos’è che mi ha fatto sentire a casa? Il fatto che io in drag con quelle persone non facessi fatica ad esistere.

Parlando del rapporto tra il drag e l’identità vorrei chiederti: in che modo la tua identità fuori dal palco è diversa da quella che hai quando ti esibisci come drag artist e quali aspetti, invece, si rispecchiano?

Andrea è sicuramente più limitato di Laryssa, nel senso che Laryssa nasce da tutto quello che volevo fare ma non facevo, ed è proprio una parte di me. Andrea è una persona più insicura, più ansiosa, mentre Laryssa è coraggiosa, interattiva, spigliata. Quando poi Laryssa non c’è sul volto e non sta performando, magari certe cose che ho fatto e che ho vissuto più liberamente nel drag me le vivo anche più liberamente nel quotidiano.
Laryssa in realtà è veramente stata una manna dal cielo, mi ha insegnato diverse cose, la prima è essere un po’ più intraprendente e farmi meno problemi.

Consideri il tuo drag politico?

Il drag è politico, di per sé è sempre un atto politico.
Per me lo è estremamente, non solo per portare l’attenzione su certi temi attraverso una performance, ma è politico anche per quello che sono io, perché il fatto che a me piaccia fare questa cosa e farla nonostante sia in un contesto che non vorrebbe, o che sconsiglia, o che scoraggia, allora quello è un atto politico.
Come Andrea credo fortemente che il personale sia politico, e che in un sistema sociale non si possa fare a meno di esserlo. Laryssa è uno dei modi migliori (se non il migliore) attraverso cui riesco ad esprimere questa cosa.

Nel corso del tempo, quali sono state le maggiori difficoltà che hai riscontrato nel fare drag e nell’essere drag artist?

Una delle difficoltà è che ci sono molte cose in gioco, cose che costano. Ci sono delle difficoltà materiali, ovvero il drag ha un lato performativo che ha una sua importanza e ovviamente se devi veicolare un messaggio, rappresentare una determinata cosa in scena, magari hai bisogno di cose che costerebbero un sacco.
Inoltre, una delle difficoltà per me è stata essere me stesso senza alcun tipo di pesantezza. Durante la mia vita l’ambiente circostante mi ripeteva che se camminavo in un certo modo, se accedevo a certe cose (il trucco, ad esempio) era sbagliato. Quindi una delle cose potenzialmente difficili, ma allo stesso tempo estremamente liberatoria, è permettersi di sperimentare la propria persona, la propria natura, senza il peso di agenti esterni.
Capita poi negli ambienti drag che ci siano persone che magari hanno una visione del drag diversa dalla tua… cioè c’è sempre quell’approccio del “sei validə solo se sei perfettə” , una cosa che per me non esiste. Questa è una difficoltà che rischia di venire con la rappresentazione mainstream: se definiamo un’immagine canonica e conforme di cosa è drag e di cosa non lo è, rischiamo di minacciare la libertà insita in quest’arte. Un esempio di ciò lo troviamo in alcuni episodi di razzismo o comportamenti tossici da parte del fandom dei programmi.

Hai tirato fuori un argomento molto interessante rispetto al drag nel mainstream. Se ci fermiamo ad un livello puramente estetico e di mainstream, quanto viene richiesto di aderire a certi canoni sociali che poi sfociano nell’andarli a rinforzare?

Questa è una cosa che dovrebbe capire in primis chi va a vedere uno spettacolo drag, perchè il meccanismo televisivo è quello che è, però si può lavorare sul pubblico. Cosa premiamo noi come pubblico? Se premiamo solo ciò che è bello e conforme, come facciamo a cambiare questa cosa? Tolgo quello che è conforme e premio solo quello che non lo è? No! La cosa che andrebbe cambiata è come guardi uno spettacolo. Il conforme è una parte della realtà, non deve essere eliminata, ma dobbiamo smettere di pensarla come l’unica possibile, l’unica cosa che va celebrata, l’unica cosa che esiste. E quando nell’arte drag ci capita qualcosa di non conforme bisogna essere aperti a quello, perché altrimenti non ne usciamo.

Hai detto che l’arte drag è nata principalmente perché alle donne non era permesso di recitare nei teatri. Che spazio è concesso oggi, invece, alle donne nell’arte drag?
Laryssa Coifashi

Uno dei primi esempi di female impersonator è sicuramente rintracciabile nel teatro shakesperiano, e oggi per fortuna siamo lontani dalle dinamiche di esclusione che potevano esserci qui, ma abbiamo ancora moltissimo da fare.
Ci sono, ad esempio, state controversie sulla partecipazione in Rupaul’s Drag Race di donne transgender in transizione. Parlando, invece, di bio queen e drag king la rappresentazione nel mainstream è scarsa o assente, la prima bio queen è apparsa solo nel 2021 in Rupaul’s Drag Race UK.
Di drag king non ne abbiamo ancora visti, se non in Dragula, e questo tipo di mancanze credo siano molto gravi.
Indipendentemente dalle dinamiche che hanno portato le drag queen al centro del mainstream, credo sia fondamentale che oggi venga fatto il possibile affinché l’arte drag sia rappresentata nella sua totalità.

C’è un legame tra l’arte drag e il femminismo?

Si, c’è un grosso legame, in particolare con il femminismo di terza ondata, con il transfemminismo, con il femminismo intersezionale. Perché nell’intersezionalità c’è una lotta congiunta rispetto a tutto ciò che è altro dall’eteronormatività e a cui è stato, quindi, tolto diritto di esistenza.
Il drag è ovviamente una forma d’arte scoraggiata dal pensiero eteronormato (che definisce il genere come binario e attribuisce ad ognuna delle due parti ruoli e comportamenti precisi) e il crollo di tale sistema, si capisce, è obiettivo comune sia dell’arte drag sia del femminismo intersezionale.

In un’ipotetica società futura, dove gli stereotipi di genere saranno per lo più superati, l’arte drag continuerà ad esistere?

Questa domanda è bellissima perché ci fa chiedere se l’arte drag esista solo in funzione delle cose che combatte. Io non credo che debba necessariamente morire con gli stereotipi di genere. Ad esempio, unə drag artist che magari ricerca fattezze più aliene, fa comunque arte drag, anche se non affronta gli stereotipi di genere. E’ una forma d’arte che si può interrogare su un sacco di cose, non è una cosa che sopravvive solo perché ci sono gli stereotipi di genere. Secondo me lə drag artist è una figura che ti dà un po’ la certezza che il drag non sopravvive solo quando c’è ciò che deve criticare, ma può sopravvivere oltre.

Quali consigli daresti ad una persona che vuole intraprendere l’arte drag?

Il primo consiglio è: guardate tutto. Cioè qualsiasi cosa vogliate fare, qualunque sia la vostra idea di partenza, esplorate tutte le possibilità. E soprattutto fatelo in comunità, fate si che questa cosa diventi uno spazio familiare, ricercate persone che reputate famiglia.
Abbiamo da poco aperto un laboratorio drag e la cosa che ci preme sempre ricordare è “sappiate che siete in un gruppo”. Io nel drag ho scoperto la meraviglia dell’altro, avere gente intorno è meraviglioso perché ti emozioni per quello che fanno, perché c’è un aiuto che non è solo materiale, è anche psicologico, è letteralmente un ispirarsi a vicenda.
Avere una famiglia scelta dove tornare è impagabile.

Se dovessi scegliere una cosa che vorresti la gente sapesse o imparasse sull’arte drag, quale sarebbe?

Che non è solamente un’arte performativa. Vorrei che sapesse che l’impianto estetico è importante ma non è tutto quello che c’è. Quello che viene presentato in drag non esaurisce quello che può essere il percorso di una persona che fa drag.
Vorrei che la gente sapesse quanto lavoro c’è dietro con sé stessi, quanto alle volte può essere difficile entrare in certi panni.
Io vorrei che la gente chiedesse, vorrei che la gente fermasse le persone che fanno drag dopo una performance e gli chiedesse perché fanno drag.
Vorrei che la gente chiedesse e fosse curiosa.

Foto di Gabriellə Daisy
Da sinistra: Calda Merini, Cordelia Flame, La Dottoressa Adele Lacune, Laryssa Coifashi.

Chiedere per conoscere, per andare oltre la mera apparenza.
L’arte drag è qualcosa che non si ferma unicamente all’estetica e a quello che vediamo in scena, è un mondo tanto leggero quanto profondo, come chi lo abita.
Immergermi in questi vissuti e farmi attraversare da queste parole è stata una delle esperienze più toccanti che abbia fatto nella vita.
Grazie a Laryssa per aver condiviso inestimabili frammenti della sua esistenza.

Alessia Gelo

Alessia Gelo

2 risposte

  1. Quest’intervista permette di conoscere una realtà e un’arte antica e attuale in ogni epoca, eppure ancora così poco conosciuta. C’è davvero tanto bisogno di opportunità preziose come questa per conoscere l’arte drag.
    Congratulazioni ad Alessia per l’ottimo lavoro e un immenso grazie a Laryssa per aver condiviso il suo vissuto, la sua visione, la sua expertise!

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