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Catene

Le luci viola e verdi mi fanno male agli occhi, fra poco inizio a tremare e cado davanti a tutti. Finisco stesa sulla pista viscida e fredda, il drink che tengo in mano si rovescia sul vestito nero e rimango appiccicata per terra.

A ogni movimento che faccio per alzarmi il tacco scivola e ritorno giù, mentre la musica continua a uscire dalle casse e Le Altre sono attorno a me, mi guardano e ridono. Così, non smetto di ballare. Scuoto la testa, chiudo gli occhi, poi li riapro. Mi muovo ondeggiando a ritmo di musica, come fanno tutti. Non guardo per terra, guardo un punto fisso, indistinto. Porto il cocktail che tengo in mano davanti il mento, lo sorseggio, mi fa schifo. È amaro e mi brucia la gola. Inizio a tossire. Ma rimango in piedi, me lo ripeto di continuo, è una frase che tuona nella mia testa a ritmo di musica. Dalla mia bocca escono le parole di We Found Love, quella canzone che ascolto con Le Altre mentre ci prepariamo per uscire la sera.

Ma che fai, canti pure adesso?

M. lo dice e ride, si vergogna di me. Ha le labbra carnose e il rossetto rosso le disegna due braccioli gonfi che stanno per scoppiare. Smetto di cantare e si allontana, mi lascia sola in mezzo alla folla. Non conosco nessuno. La guardo ballare con quel ragazzo con cui si sente, come si chiama, Tiziano, Tommaso, Paolo? Si muove come una sirena, fa strisciare i suoi fianchi su quelli del compagno di ballo. Lui le bacia il collo, lei si ritira, sorride, si sorridono a vicenda. Lui si morde il labbro, gli sta piacendo questo gioco del gatto e del topo.

Io, intanto, continuo a ballare. Qualcuno mi spinge, urto il braccio di R, quella della 5A.

Ma che stai facendo? Datti una svegliata, scema.

Le è finita una goccia di alcol sul vestito, prova a pulirsi, io cerco di spostarmi, mi guarda male e lo dice al ragazzo con cui balla. Si girano, mi guardano e sbuffano. Sembrano stanchi e disgustati. Li fisso e cammino all’indietro, in mezzo a una nuvola verde che si solleva da terra. Inizio a tossire e mi gira di nuovo la testa. Non respiro altro che aria di nebbia.

Vedo da lontano M. che continua ancora a ballare con quel ragazzo. Sono avvinghiati come un pitone al topo, così stretti che sembrano un’unica cosa. Non si guardano in faccia e mentre ballano M guarda il resto della gente, sorride compiaciuta, con i denti bianchi e il rossetto così rosso.

Il suo corpo è sicuro, grintoso, aggressivo. Io non riesco a camminare su quel pavimento appiccicoso e la nebbia mi fa lacrimare gli occhi. Sento il mascara colare. A. ha deciso di truccarmi per quella sera.

Le Altre si erano disposte in cerchio attorno a me e ognuna di loro aveva una mano sul mio corpo. A. mi aveva messo il mascara, l’ombretto nero e la matita. C. e P. avevano preso dal mio armadio un tubino nero, me l’avevano regalato loro, dicevano che lo avevano trovato in saldo e faceva proprio al caso mio. M. guardava il risultato dallo specchio della camera da letto e coordinava il lavoro. Ancora un po’ di trucco qui, le calze più trasparenti, il rossetto più rosso.

Ero la loro creazione. Sentivo le mani unticce sul mio viso, gli occhi mi lacrimavano e loro ci passavano sopra una salvietta umida, mi prudeva la testa e mi grattavano loro. Non toccare qui, mi urlavano addosso tenendomi le mani ferme e incastrate sotto la sedia. Lasciaci fare. E io le ascoltavo e le lasciavo fare. Alla fine, avevano spruzzato un profumo che mi aveva fatto venire il mal di testa e mi prudeva il naso. Poi mi avevano fatta alzare. Su, adesso sei pronta e sei una di noi.

Ero diventata come loro, ma non sapevo camminare sui tacchi. Come si fa? Avevo chiesto.

Non ti interessa, provaci, che sarà mai. Noi abbiamo imparato da sole.

E allora, un passo dopo l’altro, avevo provato a camminarci sopra, con le calze che mi facevano sudare i piedi e le caviglie insanguinate. Mi avevano dato un pacco di cerotti trasparenti.

Portateli dietro e quando ti fa troppo male copri la ferita.

Li avevo messi in una borsetta minuscola ed ero andata con loro. Camminavano in branco, avanzando insieme in uno stormo di uccelli neri come la notte e lasciavano dietro un profumo piccante e nauseabondo. Appena varcata la porta della discoteca tutti si erano girati a guardarle. Io ero sempre un passo indietro. Zoppicavo e trascinavo il piede destro che mi faceva più male di quello sinistro, sorridevo insieme a loro, non guardavo per terra, come mi avevano insegnato.

I loro occhi contornati di nero, verde, blu scuro e brillantini scrutavano la sala in cerca di attenzione. Appena trovata la preda, mi avevano lasciata sola e mi ero messa ad ancheggiare sulle note di quella canzone, che nemmeno mi piaceva, non mi è mai piaciuta, ma la canticchiavo a bassa voce, sicura di me. Non esisteva altro che me e quella canzone. Mi avevano passato un cocktail e avevo dovuto sorseggiarlo. M. era ritornata da me e mi aveva detto che bastava un po’ di abitudine e mi sarebbe piaciuto. E così lo avevo sorseggiato, cercando qualcuno, inghiottendo quel liquido acido e amaro. Mi bruciava la gola ma dovevo ballare, ballare e ballare, e il tallone sanguinava e Le Altre non c’erano più.

Adesso il ghiaccio si è sciolto e il bicchiere è pieno di acqua color smeraldo. La cannuccia mi è finita per terra e l’ho calpestata. Scappo in bagno, le gambe sono pesanti e la testa pulsa a ritmo di musica. Quel posto è pieno di altre ragazze che si sistemano il trucco, si tirano i vestiti sopra le ginocchia, si guardano la pancia, si stringono i fianchi, si spruzzano ancora profumo.

Io le guardo e mi sento sola, sempre più sola. Sullo specchio c’è il timbro di un bacio fatto con il rossetto rosso. Poi vedo A. che esce da una porta, ha il trucco sbavato, barcolla e sembra perdere l’equilibrio. Poi la vedo cadere tra le braccia di un ragazzo mai visto prima, la sostiene e la porta fuori. Faccio finta di non vederla, lei non si ricorderà di me.

Entro in un bagno, mi chiudo dentro e tolgo le scarpe. Mi siedo sul gabinetto, i piedi mi tremano e la caviglia sanguina. Mi tolgo le calze, le abbasso fino ai piedi. Poi sfilo il vestito, lo strappo, mi sta troppo stretto. Prendo un elastico e lego i capelli. Sanno di fumo e di quel profumo che Le Altre mi hanno spruzzato.

Poi con un pezzo di carta igienica bagnata inizio a sciogliere il trucco che ho in faccia. Il rosso delle labbra si mescola al nero del mascara, diventa un tutt’uno che scivola fino al collo. Abbandono le scarpe accanto al Wc, apro la porta ed esco fuori. Le Altre mi vedranno così. Sei una pazza, diranno. Ci rovini l’immagine così, continueranno.

Sono una bambola di plastica a cui hanno dato fuoco, la pelle sembra che si stia sciogliendo e i capelli sono scompigliati, crespi, fuori posto. Percorro la strada da cui sono arrivata a ritroso e arrivo fino all’ingresso. Sono diversa da come sono entrata. Adesso sono sola ma senza catene.

L’aria fuori dalla porta è calda, sono a casa.

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Sara Noto Millefiori

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