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La detenzione femminile: il carcere dentro e fuori le sue mura

L’ultimo rapporto di Antigone pubblicato a gennaio 2023 ci mostra i numeri ormai congelati da più di vent’anni della detenzione femminile in Italia e nel mondo, interrogandosi come sempre sulla validità effettiva dell’articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“. Difficile pensare al senso di umanità guardando anche solo il tasso di affollamento ufficiale.

La portata della detenzione femminile

Le donne in carcere in Italia sono circa il 4% del totale della popolazione detenuta, una percentuale che dal 2000 si mantiene sempre invariata. Sono 2392 le donne detenute in carceri con una capienza ufficiale di 533 posti letto e un tasso di affollamento del 112,3%, che supera il tasso di affollamento ufficiale delle carceri italiane del 109%.

In sostanza le donne contribuiscono numericamente molto poco al sovraffollamento delle carceri, ma ne sono più colpite rispetto agli uomini.

Carcere femminile di Pozzuoli (NA)

In Italia ci sono quattro carceri femminili: a Pozzuoli, Roma, Venezia e Trani. Ospitano un quarto delle detenute, le restanti sono dislocate nelle sezioni femminili delle altre carceri italiane. Gli edifici di Venezia e Trani sono edifici “storici”, molto vecchi. Anche se questi ultimi hanno il vantaggio di essere concepiti in un contesto urbano più facilmente raggiungibile dalle famiglie e più radicato nei servizi territoriali, le carceri più moderne, anche se per lo più extraurbane, si prestano maggiormente alla realizzazione di un’idea attuale di detenzione, disponendo di aule, laboratori e spazi più ampi all’aperto.

Donne migranti in carcere: il genere, la razza, la classe.

Nel 1990 le donne straniere detenute in Italia erano il 16%, oggi sono il 37% del totale delle donne recluse. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questo incremento esponenziale non si spiega soltanto con l’aumento del fenomeno migratorio e della più recente migrazione femminile.

Angela Davis nel suo saggio “Aboliamo le prigioni?” ha tentato di spiegare molto bene quello che accade negli Stati Uniti, dove questo fenomeno complesso e analogo al nostro vede progressivamente aumentare negli anni le detenute di origine ispanica ed asiatica, accanto alla popolazione di donne afroamericane che (guarda caso) rappresentano da secoli la maggioranza delle detenute. La filosofa oltre ad esaminare il sistema carcerario degli USA quale discendente diretto della schiavitù e della segregazione razziale, nonché strumento fecondo del capitalismo, analizza le dinamiche di intersezionalità tra genere, razza e classe anche tra le mura di queste moderne prigioni.

Angela Davis: filosofa, femminista, icona del movimento di liberazione dei neri degli anni settanta, militante delle Pantere nere e del Partito comunista.

Innanzitutto gli Stati Uniti rappresentano il paese con il più alto tasso di detenzione al mondo. Mentre nel resto del mondo le percentuali di detenute tendono ad equivalersi intorno al 4-5% indipendentemente dal livello di welfare, latitudini, orientamenti politici e matrici socio-culturali, negli Usa le donne sono più del 10% della popolazione detenuta. Nel paese campione mondiale di “democrazia” ci sono 64 donne detenute ogni 100.000 donne libere, un tasso che supera di ben quindici volte il dato italiano.

Angela Davis ha scritto che negli Stati Uniti, molto più che nel resto del mondo, i mutamenti economici e politici degli anni Ottanta del Novecento – la globalizzazione del mercato, lo smantellamento dei programmi di assistenza sociale, il boom dell’edilizia carceraria e del complesso carcerario-industriale – hanno causato un’accelerazione improvvisa del tasso di detenzione femminile. Il risultato è che il settore femminile statunitense è quello che cresce più in fretta fra la popolazione carceraria.

Il criminologo Elliot Curie ha analizzato gli effetti della razza e del sesso nei tassi di crescita della popolazione carceraria e combinando le variabili ha riscontrato che attualmente negli USA il tasso di incarcerazione delle donne nere supera quello degli uomini bianchi del 1980.

Le radici culturali di questo processo vengono rintracciate dalla Davis nella fine del XVIII secolo, quando il sistema carcerario si afferma ufficialmente come principale forma di punizione di Stato. Già da questo momento le donne detenute vengono rappresentate diversamente dagli uomini. Mentre la criminalità maschile è considerata più “normale” di quella femminile e i detenuti maschi percepiti come criminali che hanno violato il contratto sociale, le donne detenute – soprattutto bianche – sono considerate delle deviate, degenerate, “pazze” che hanno trasgredito la morale patriarcale di femminilità. Invece, le donne razzializzate sono giudicate colpevoli di aver assecondato la loro “ne*rità”, vista quest’ultima come sinonimo di tendenza criminale. Per lungo tempo gli ospedali psichiatrici hanno funzionato come sistema di detenzione principalmente concepito per controllare le donne “isteriche”, una sorta di controparte femminile bianca del carcere, che in quanto tale nasce invece come istituzione di controllo per gli uomini, poi esteso progressivamente alle donne. Prima dell’abolizione della schiavitù le carceri in Alabama erano per il 99% occupate da uomini bianchi, dopo l’abolizione la popolazione nera è divenuta la netta maggioranza: il sistema carcerario è un retaggio dello schiavismo e uno strumento di perpetuazione del razzismo.

Nel corso del tempo le carceri sono state teatro di pratiche patriarcali oppressive ai danni soprattutto delle donne, alcune considerate anche superate nel mondo libero: scontatezza della violenza sessuale; la svalorizzazione della riabilitazione professionale a fronte di una reintegrazione volta unicamente al ruolo di madre; misure extracarcerarie di detenzione domiciliare più applicate che negli uomini (i quali tendono a godere di più dell’affidamento in prova tra le misure extracarcerarie) per relegare la donna alla sfera domestica una volta libera; attività proposte in carcere appiattite sugli stereotipi di genere (es. pasticceria, sartoria).

“Art & Krimes” by Krimes.

La marginalità genera crimine e il carcere genera marginalità.

Il carcere si conferma anche ai nostri giorni nel suo ruolo di sistema a carattere repressivo: è come una lente che permette di osservare a forte ingrandimento la marginalità sociale che prolifica fuori dalle sue mura. Marginalità di cui il sistema carcerario è concausa e conseguenza.

Riportando il tutto alla situazione italiana, la matrice razzista del sistema detentivo ed il fallimento dell’art.27 si confermano nell’analisi di Antigone Onlus. Secondo l’ultimo rapporto, le donne straniere residenti in Italia sono circa il 4% della popolazione generale residente; le donne straniere detenute in carcere sono ben il 37% del totale delle carcerate (2.392 donne) e invece le straniere destinate a misure extracarcerarie (detenzione domiciliare e affidamento in prova) sono solo il 18% su un totale però pari a 14.146 destinatarie di tali misure. Ne consegue che le autrici di reato di origine straniera sono svantaggiate ed etichettate aprioristicamente come socialmente pericolose.

Ritorna l’insensatezza di un sistema di pena che colpisce maggiormente chi è già in una condizione di svantaggio. Le donne straniere in Italia sono più svantaggiate socialmente, commettono reati meno gravi, ma hanno meno opportunità di reintegrazione e riabilitazione sociale. Uno dei motivi per cui esse tendono a subire di più il sistema carcerario è che la loro istituzionalizzazione è vista come unica alternativa all’assenza di supporto extracarcerario. Lo Stato però non può continuare a colmare con il carcere il suo fallimento in materia di giustizia sociale.

La gestione della salute

Nel 2008 è avvenuto il trasferimento definitivo al Servizio Sanitario Nazionale delle prestazioni della medicina penitenziaria, la quale era precedentemente competenza del Ministero della Giustizia. Questo da una parte ha favorito l’accesso a prestazioni di qualità, dall’altra ha privato le detenute di figure professionali quali i medici penitenziari, che erano dotati di maggiore esperienza, sensibilità e attenzione alla loro dimensione sociale di pazienti detenute.

Medicina di genere e comunità Lgbtqia+

In passato si appiattiva il bisogno di salute femminile esclusivamente sugli specialisti in ginecologia e ostetricia, che da soli però non bastano a soddisfare gli approcci più moderni della medicina di genere. Questa tiene conto delle specifiche influenze che il genere ha in materia di salute, in tutte le branche della medicina. Si parla propriamente di genere e non solo di sesso biologico, perché quest’ultimo non è l’unico condizionamento dell’iniziativa diagnostica e terapeutica. Purtroppo si è ancora molto lontani da tale approccio, tanto nel mondo libero quanto più nell’istituzione del carcere: luogo fisico e simbolico di chiusura e perpetuazione degli stereotipi di genere. Le donne transgender (e con loro tutta la comunità Lgbtqia+) sono tra le vittime principali di questo sistema: da una parte l’oggettificazione e ipersessualizzazione dei loro corpi considerati marginali e non “naturali”, dall’altra la violenta separazione in appositi reparti transex che le privano dell’esercizio fondamentale della loro identità e del diritto di accesso alle attività formative, riabilitative e trattamentali di cui godono tutte le altre donne.

2022: l’anno dei suicidi

Il 2022 ha registrato il numero di suicidi in carcere più alto della storia: 84 persone si sono tolte la vita all’interno del carcere. In particolare, il tasso dei suicidi è più alto tra le donne che tra gli uomini: rispettivamente 2,2 suicidi ogni 1000 persone contro 1,4 suicidi ogni 1000 persone. Il tasso di suicidi nella popolazione carceraria è comunque nel complesso molto più alto rispetto a quello della popolazione libera che è pari a 0,07 ogni 1000 abitanti.

I numeri della salute mentale in carcere

Le patologie psichiatriche colpiscono maggiormente le donne detenute rispetto ai detenuti: le diagnosi psichiatriche gravi riguardano il 12,4% delle donne detenute, contro il 9% degli uomini detenuti. Fanno uso di psicofarmaci il 63,8% delle donne in carcere contro il 41,6% degli uomini. Si verificano circa 31 atti di autolesionismo ogni 100 donne presenti, contro i 15 ogni 100 uomini detenuti.

I dati sui suicidi, atti di autolesionismo e consumo di psicofarmaci nella popolazione detenuta femminile indicano livelli di disagio, sofferenza e disadattamento tali che sottendono una profonda inadeguatezza delle strutture detentive, incapaci sia nel sistema normativo sia nella pratica di adattare il modello penitenziario alle esigenze specifiche delle donne. Esso è stato concepito per gli uomini, per i quali risulta comunque inadeguato, ed esteso alle donne senza adottare alcuna prospettiva di genere se non quella relativa alla maternità. Il risultato è mancata tutela della collettività e delle soggettività femminili.

Perché e come pensare alle teorie abolizioniste?

Un’alternativa alla pena detentiva non solo può essere immaginata, ma con l’attuale sistema carcerario diventa necessariamente auspicabile. L’abolizionismo in materia di detenzione è sì un atto rivoluzionario, ma non è un’azione netta e improvvisa, bensì un processo culturale che è partito negli anni ’70 del secolo scorso con grandi lotte di detenute e detenuti nate per ripensare l’intervento penale, fautore di disumanizzazione e marginalizzazione. La prospettiva odierna non si è modificata, ma continua a voler trasformare l’intervento penale in intervento sociale: investire meno negli apparati di repressione e più in figure di riconciliazione sociale: psicologi, assistenti sociali, educatori.

Se lo Stato impiega le sue energie nella costruzione e implementazione del sistema carcerario, non solo non sta combattendo il crimine, semmai sta combattendo “solo” i criminali, e non ci sta neanche riuscendo: chi è in carcere verte in uno stato di abbandono sociale quando vi entra e tanto più quando (e se) vi esce. Il carcere si rivela il generatore di quella criminalità e pericolosità sociale che si propone solo di arginare, di isolare.

Ripensare il carcere e il sistema detentivo in generale è difficile, è un pensiero utopistico e ambizioso, non per questo meno valido. É più probabile che si navighi verso questa direzione in modo non catastrofico: le mura delle carceri esistenti e di quelle invisibili non si abbattono solo fisicamente e ideologicamente, ma si demoliscono soprattutto rafforzando l’esterno, ovvero l’apparato di supporto statale nei contesti sociali di origine dei rei e delle ree.

Dominica Lucignano

Dominica Lucignano

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