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Una mattina a Jenin: in ricordo di Shireen Abu Akleh

“Per me Jenin non è una storia effimera nella mia carriera o persino nella mia vita personale. È la città che può sollevarmi il morale e aiutarmi a volare. Incarna lo spirito palestinese che talvolta trema e crolla e poi, oltre ogni immaginazione, si rialza per seguire le sue traiettorie e i suoi sogni”.

Territori Palestinesi Occupati, 11 maggio 2022.

100 chilometri. Solo 100 chilometri separano la città di Jenin da Gerusalemme. Jenin è il luogo in cui la più famosa giornalista palestinese, Shireen Abu Akleh, è stata colpita da un proiettile e uccisa per mano dell’esercito israeliano l’11 maggio 2022. Gerusalemme invece è dove è nata, nel quartiere di Beit Hanina, molto vicino a Ramallah. Vita e morte che si guardano a 100 chilometri di distanza.

Jenin e Gerusalemme si trovano ad una distanza tanto breve quanto però abissale per chi conosce la terra meravigliosa e martoriata in cui le due città si trovano. Ed è una distanza che risulta difficile da comprendere per chi non ha vissuto la realtà dell’occupazione della Palestina. Una realtà fatta di colonie israeliane illegali secondo il diritto internazionale, campi profughi e infiniti posti di blocco che costellano i vari frammenti che si incastrano a formare questa terra.

È li che Shireen stava lavorando il giorno in cui è stata uccisa, vicino ad un campo profughi di Jenin per coprire un raid dell’esercito israeliano, uno dei troppi in una Palestina che ha raggiunto il 75esimo anno di colonizzazione. Colpita alla testa da un proiettile, poi il buio.

Shireen Abu Akleh, 51 anni, giornalista molto nota in Medio Oriente, è stata una delle prime corrispondenti sul campo per la rete televisiva qatariota Al-Jazeera, per la quale aveva iniziato a lavorare nel 1997. Così, l’icona giornalistica e una delle più importanti narratrici della quotidiana resistenza palestinese sin dalla Seconda Intifada nel 2000, viene assassinata mentre indossa il giubbotto antiproiettile con la scritta “Press” e l’elmetto, mentre svolge il suo lavoro di reporter. Eppure, per lei era proprio la città di Jenin, dove ha perso la vita, il luogo che aveva segnato la sua carriera professionale. Jenin tanto amata e al contempo temuta. Perché Jenin non appartiene a coordinate geografiche qualsiasi, ma rappresenta per il mondo arabo e per l’opinione pubblica il cuore della resistenza palestinese. E per Israele, invece, una zona di fuoco, difficile da controllare e dunque, centro dei raid dell’esercito.

Inizialmente le autorità israeliane avevano smentito categoricamente ogni coinvolgimento del proprio esercito nella sua uccisione e sostenuto che fosse stata centrata da un proiettile sparato dagli stessi palestinesi verso i soldati israeliani, e che avrebbe colpito casualmente la giornalista. Ma, nella lotta per la verità, in seguito ad un’indagine condotta dall’Autorità Nazionale Palestinese e da una successiva dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) è stato confermato che Shireen è stata uccisa da un soldato israeliano e non per errore di fuochi incrociati, bensì per un disegno ben preciso, in quanto il gruppo di reporter si trovava in un’area lontana dai combattimenti, analizzando prove fotografiche, video, audio e sull’ispezione dei luoghi dell’attentato. Uccisa perchè palestinese, uccisa in quanto voce di un popolo che non si è mai arreso. Le forze di occupazione non hanno dato pace a Shireen nemmeno durante il suo funerale: mentre la bara veniva trasportata verso la chiesa per la cerimonia funebre (la famiglia Abu Akleh è cristiana), la polizia israeliana ha attaccato brutalmente i partecipanti alla processione, strappando le bandiere palestinesi e assaltando chiunque opponesse resistenza. 

Questo fa luce, anche se ancora troppo debole, sulla realtà che vivono i palestinesi ogni giorno da 75 anni in seguito alla Nakba, (in arabo “la Catastrofe”), ovvero il processo di pulizia etnica avvenuto, e che avviene tuttora, dopo la dichiarazione dello stato di Israele nel 1948, che comprendeva la distruzione della società palestinese e della sua patria, oltre allo spostamento permanente della maggioranza della popolazione, diventata in seguito profuga. Dal 1948 ad oggi, con 8 milioni di palestinesi che vivono come rifugiati, Israele attacca, bombarda e priva coloro che sono rimasti nella loro terra delle libertà fondamentali, tra le quali il diritto alla mobilità, violando ogni giorno i principi del diritto internazionale, e rimanendo, però, impunito. Un’impunità che persiste, anno dopo anno, anche davanti alla ormai consueta pratica dell’open fire praticata dall’esercito israeliano: sparare sui civili anche quando non ci sono situazioni di minaccia alla vita. Così, quotidianamente, palestinesi non armati vengono uccisi dalle forze di occupazione e i responsabili non vengono perseguiti. 

Ecco perchè, in questo maggio 2023 ad un anno dalla sua uccisione, dobbiamo ricordare la giornalista Shireen Abu Akleh. Perchè la sua voce è stata silenziata volontariamente per mettere a tacere la resistenza di un popolo, quello palestinese, che lei ha voluto raccontare a costo della propria vita, davanti ad una comunità internazionale che sceglie ogni giorno di voltarsi dall’altra parte.

Ad oggi, i palestinesi uccisi dall’esercito israeliano, tra cui donne e bambini, sono già 123 dal mese di gennaio. Per seguire quotidianamente ciò che avviene in Palestina consiglia di seguire l’account Instagram “Eye on Palestine”, che fa luce sulle brutali violazioni dei diritti umani che attua Israele nei confronti della popolazione palestinese.

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Francesca Feder

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