Il corpo come soggetto attivo – intervista a Costanza Salini

“Grazie alla macchina fotografica non era più chi osservava ad andare verso l’immagine, ma l’immagine a
viaggiare fino a lui”.
Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza. Maura Gancitano


È proprio vero che la fotografia ha cambiato il nostro modo di relazionarci ai soggetti: non sono più qualcosa di idealizzato, il frutto del solo gesto e delle volontà dell’artista, ma sono anche delle presenze attive che instaurano con noi un dialogo. È altrettanto vero che, fin dalle sue origini, la fotografia è stata utilizzata dall’industria pubblicitaria per diffondere solamente immagini di corpi considerati perfetti e “naturali”, riducendo la complessità e la varietà delle rappresentazioni. Sono l* artist* che hanno il compito di ampliare le narrazioni e scardinare i pregiudizi che abbiamo, e, nel lavoro di Salini, ho visto proprio questo: tante storie in altrettanti sguardi.

Costanza Salini, classe 1997, è una fotografa italiana specializzata nel ritratto. Il suo intento è quello di offrire uno spazio a tutte quelle esistenze che vengono volontariamente silenziate e, di conseguenza, non trovano una loro degna rappresentazione. In alcuni dei suoi lavori il protagonista è il corpo: “Racconti del corpo” ci parla, ad esempio, della bellezza di tutte le persone e di quanto il nostro corpo sia una parte essenziale della nostra identità. Partendo dalla sua esperienza personale, Salini ha impostato la sua arte sulla cura, sull’empatia e sulla volontà di lasciare un’impronta a livello sociale.

Essendo io particolarmente interessata al suo lavoro, le ho chiesto la gentilezza di concedermi un’intervista per comprendere a fondo la sua arte e la sua importanza: spero vi meravigli come è successo a me.

Olympia, Racconti del corpo, 2021


I: Ho sempre pensato che l’arte debba avere un’importanza sociale e, nei tuoi progetti, questo
intento è molto forte. In alcuni lavori, come in “Racconti del corpo”, hai trattato il tema della body neutrality: come mai questa scelta? Come ti poni in relazione a questa tematica?

C: Arrivo a trattare questi temi per via del complicato rapporto che ho sempre avuto con il mio corpo. A sette anni mi viene diagnosticato il diabete, crescendo sviluppo inconsciamente una relazione morbosa con il cibo. Nel momento in cui imparo a contare i carboidrati e a dosare l’insulina, la rigida dieta che dovevo mantenere per il corretto controllo del diabete si va allentando. In quel momento inizio a soffrire di binge eating disorder e bulimia, prendo peso in un breve lasso di tempo e tutti attorno a me sembrano accorgersene. A tredici anni inizio ad essere vittima di bullismo e cyberbullismo. Ricordo le innumerevoli volte che ho pensato, da adolescente, se solo il mio corpo fosse stato diverso, avrei meritato l’amore e la visibilità che tanto voglio. Questa sensazione mi ha accompagnata per molti anni, ho sempre pensato che perdere peso ed uniformarmi con l’immagine della “donna/ragazza ideale” fosse la risposta a tutti i miei problemi. Durante il primo anno di Covid riverso tutte le mie frustrazioni, ancora una volta, sul mio corpo. Divento amenorroica dopo aver perso molto peso in un breve lasso di tempo, il mio corpo si era ammalato e mi stava dando chiari segnali, ma preferivo ignorarli per rimanere in quel “peso-forma” che avevo rincorso tutta la vita. Inizio però a rendermi conto che qualcosa doveva cambiare, che avevo sviluppato una vera ossessione, arrivando a contare persino le calorie di qualche foglia di lattuga. In questo momento ho scoperto il movimento di body positivity, il concetto di apprezzare incondizionatamente il corpo, con i suoi pregi ed i suoi difetti. Ho presto realizzato che questo era molto complicato per me che, pur volendo, non sarei riuscita ad apprezzarmi quotidianamente. Continuando la mia ricerca ho scoperto il concetto di body neutrality che si sposa meglio sia con me come persona, che come spunto per la mia ricerca artistica. Il concetto fondamentale della body neutrality è quello di non soffermarsi sull’apparenza fisica, ma essere grati per ciò che il nostro corpo ci permette di fare. Amare le mie gambe non per la loro magrezza o muscolosità, bensì perché mi permettono di muovermi nella vita. Credo fermamente che questo tipo di documentazione, questo dialogo aperto con i soggetti delle mie fotografie, mi abbia non solo aiutata ad applicare il concetto di body neutrality su me stessa, ma anche a creare una comunità attorno a me. I disturbi alimentari portano spesso all’isolamento, al comparare il proprio corpo con quello degli altri, quando ai tuoi occhi tutti sono i avversari, nessuno è tuo alleato. Con “Racconti del Corpo”, ho iniziato ad abbattere questo stigma, a non sentirmi più sola in questa lotta ed a riconoscere gli agenti che rendono i disturbi alimentari così diffusi, soprattutto nel genere femminile.


I: Sempre parlando di corpo, i ritratti che realizzi sembrano (e in realtà sono) parlanti; non sono solo la traccia del soggetto, ma anche la sua storia. A questo proposito, lasci loro libertà di espressione nelle pose e negli sguardi?

C: Gli incontri con i miei soggetti nel momento della realizzazione degli scatti sono sempre un dialogo aperto. Prima di scattare registro la voce della persona che devo ritrarre, lasciandole lo spazio di raccontare quel che desidera sul rapporto con il proprio corpo. Condivido la mia storia con ognuno di loro nell’intento di creare un momento di reciproca vulnerabilità. Quando inizio a scattare cerco di guidare la persona senza imporre il mio sguardo da fotografa su di lei, a poco a poco ci immergiamo nel processo intimo dello scatto. Dialogando durante la sessione di scatto, la libertà del soggetto ed i miei suggerimenti sono entrambi presenti. Mentre io come fotografa li guido nella scelta delle pose e nella ricerca della luce ideale, ciò che rimane puro e personale è proprio lo sguardo delle persone ritratte. È attraverso i loro sguardi che si riesce a cogliere il loro “Io interiore”, che diventa poi un elemento più dominante rispetto alla loro apparenza esterna, facendo cogliere a chi osserva la loro bellezza e complessità.


I: Capita che tra fotograf* e soggetto si instauri un rapporto di fiducia e di reciproco ascolto. Come vengono scelte le persone ritratte? Si crea un legame tra te e loro?

C: Durante i miei studi ho imparato l’etica necessaria per approcciare questo tipo di temi con persone che hanno vissuto un qualche tipo di trauma nella loro vita. Inizialmente, anziché approcciare i miei soggetti, ho iniziato facendomi degli autoritratti di nudo, postandoli su Instagram e condividendo la mia storia. Dopodiché ho fatto una open call che invitava chiunque si riconoscesse in queste storie a contattarmi privatamente. In poche settimane avevo già ricevuto molte richieste, sia da persone che già conoscevo che da totali sconosciuti. Prima di fotografare i miei soggetti ho sempre voluto incontrarli senza alcuna fotocamera. Volevo prima avere lo spazio ed il tempo di dialogare con questa persona che avrebbe dovuto non solo mettere a nudo il proprio corpo davanti all’obiettivo, ma anche la propria anima, lasciandomi registrare attimi privati di vita, momenti traumatici, ma anche speranze e suggerimenti per un futuro migliore e più sano. Scelgo le loro abitazioni come ambienti per scattare, per poterli permettere di essere più a loro agio. Non mantengo un legame con tutti i miei soggetti, per alcuni l’esperienza vissuta con me serve più come momento catartico, esorcizzare i demoni del passato raccontando, ed aiutare chi vive esperienze simili nel presente dando voce a ciò che spesso sembra essere un “fantasma” nella nostra vita. Ciò nonostante, ho mantenuto un legame profondo ed intimo con alcune delle persone che ho scattato. È sempre una grande gioia rivedere queste persone, assistere ad una loro “evoluzione” nel tempo, essere testimone di come, grazie alla loro perseveranza, il loro coraggio, le comunità e le famiglie scelte, sono in grado di superare i limiti e le sovrastrutture che questa società impone sull’apparenza del nostro corpo.

I: È molto bello il legame che hai descritto tra artista e soggetto: dal dialogo aperto alla scelta di un posto sicuro per gli scatti, mi sembra che il tuo lavoro sia anche un buon esempio di cura. Hai parlato anche di come il processo artistico possa rappresentare un momento catartico per le persone che ritrai, qualcosa di molto forte: la reazione al tuo lavoro da parte dei soggetti è sempre stata questa, o può cambiare? Mentre, per quanto riguarda le persone che guardano i tuoi ritratti, i fruitori e le fruitrici, solitamente cosa provano? In breve: che feedback ricevi solitamente dall’esterno?

C: Essendo i miei soggetti persone, che vanno avanti nella loro vita e nelle esperienze continuano a formarsi e trasformarsi, la loro reazione agli scatti può sempre variare. Ad esempio, mi è capitato che la persona ritratta fosse inizialmente entusiasta del progetto, ma che mi chiedesse in un secondo momento di rimuovere il contenuto da internet e dai social, poiché non si riconosceva più nelle fotografie e nella storia raccontata. Ovviamente voglio accontentare i miei soggetti quando mi vengono fatte queste richieste, poiché credo fermamente che la tutela delle persone ritratte sia di maggiore importanza rispetto alla qualità e all’utilizzo degli scatti nel mio portfolio online. È essenziale quando espongo questo progetto intimo e vulnerabile che gli spettatori vedano più di un corpo, che colgano la complessità di una persona e del suo vissuto negli sguardi e nei racconti. Certamente non mi aspetto che tutti abbiano la sensibilità di guardare oltre ad un corpo nudo e capire il messaggio dietro agli scatti, infatti spesso non è accaduto. Mi è stato domandato ad esempio perché insisto nel ritrarre la donna nuda, perché legare il valore del corpo femminile alla sua nudità. Cerco sempre di spiegare che voglio evidenziare e celebrare il fatto che, nonostante il corpo di questa persona sia stato rifiutato o emarginato dalla società, è sempre giusto affermare la propria esistenza nel mondo, reclamare il proprio spazio, cercare di guarire dai traumi ed aiutare così facendo altri che condividono le stesse esperienze negative. Le persone sono spesso toccate dall’intimità e dalla vulnerabilità degli scatti, i colori caldi e gli ambienti domestici. Le reazioni che però più mi soddisfano le ricevo quando chi osserva gli scatti si riconosce nelle storie e si sente vicino ai soggetti, diventando così parte di una comunità.

Kim, Racconti del corpo, 2020


Insomma, il lavoro di Costanza Salini è l’esempio perfetto di come un’esperienza personale possa trasformarsi in qualcosa di socialmente rilevante. Leggere le sue parole evidenzia come la sua arte non sia
soltanto lo scatto che noi vediamo, ma un processo che parte dal dialogo con il soggetto fino ad arrivare alle persone che guardano le sue foto, tutt* parte di una collettività. Le sue fotografie ci insegnano che tutt* noi abitiamo un corpo, che questa casa influenza il nostro vissuto e, nel bene e nel male, è parte della nostra identità: riconoscere quante esperienze ci permette di fare, quante relazioni ci permette di instaurare e quante narrazioni diverse e complesse partano proprio da questo involucro ci aiuterà ad apprezzarlo di più e, chissà, a fermare il nostro giudizio costante su di esso.

Per scoprire altri progetti di Salini e farvi travolgere dalla sua arte, seguitela su Instagram o visitate il suo sito.

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Ilaria Rusconi

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