Perché dobbiamo continuare a parlare di studi di genere?

Si sente parlare spesso degli studi di genere. Per chi, come me, è femminista e si interessa alle questioni di genere, non si tratta di certo di un ambito nuovo. Nel mio caso, per esempio, si tratta di uno dei temi su cui ho letto e studiato di più, perciò spesso faccio l’errore di pensare che si tratti di argomenti scontati, visti e rivisti. Mi rendo conto che sia sbagliato e presuntuoso, perciò mi sono detta: perché non mettere a disposizione le mie conoscenze per contribuire, nel mio piccolo, a diffondere nuove consapevolezze e a fare un ripasso su questioni che magari non per tutti sono così familiari?

Gli studi di genere sono conosciuti anche con il termine inglese gender studies. Si tratta di un ambito in cui si applica un approccio interdisciplinare allo studio dei significati sociali e culturali dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.

Quando si parla di studi di genere, infatti, è necessario menzionare allo stesso tempo anche l’intersezionalità. Il genere non è mai isolato da altri fattori che determinano la posizione di una persona nel mondo, come il suo orientamento sessuale, la sua etnia, la sua classe, la sua religione, il suo luogo di origine, le sue personali esperienze di vita, le risorse a cui ha accesso e il fatto che sia o meno disabile. 

Ritengo innanzitutto necessario compiere una distinzione tra il concetto di “sesso” e il concetto di “genere”. I significati di queste parole sono ben diversi e non intercambiabili. Il sesso riguarda la struttura cromosomica di un individuo, i suoi caratteri anatomici e il suo quadro ormonale. Il genere, invece, aderisce a fenomeni psicologici e sociali sulla base dei quali vengono formulate le aspettative sul nostro comportamento nella società. Il genere di un individuo, infatti, ha a che fare coi modi in cui egli si comporta e con cui si rapporta agli altri. In generale è possibile affermare che mentre il sesso è biologico, il genere è costruito sulla base della cultura, delle tradizioni e delle abitudini sociali che circondano un individuo.

Il concetto di “genere”, così come lo si usa oggi, è entrato nel linguaggio comune all’inizio degli anni Settanta. É nato per indicare una categoria analitica che traccia una linea di demarcazione tra le differenze biologiche dei sessi. Oltre a ciò, è nato per evidenziare i modi in cui queste differenze vengono utilizzate e “manipolate” per definire gli atteggiamenti “corretti” da attuare nella società. La distinzione tra sesso e genere mirava proprio a sostenere che gli effetti delle differenze biologiche erano esagerati per mantenere un sistema di potere patriarcale. In questo modo, ad esempio, le donne si sarebbero sentite più adatte a ruoli domestici e di cura.

Nonostante gli studi di genere abbiano radici profonde, si tratta di un ambito nato e ufficialmente riconosciuto piuttosto di recente. Nacquero, infatti, verso la fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti e successivamente, negli anni Ottanta, si diffusero anche in Europa. In realtà, fino agli anni Ottanta, gli studi di genere erano conosciuti con il nome di women’s studies. Avendo avuto origine dai movimenti femministi degli anni Settanta, all’inizio vedevano principalmente le donne come protagoniste.

Fu una nuova ondata femminista a portare alla luce il fatto che in molte discipline accademiche si tendesse a escludere l’esperienza delle donne. In sociologia, ad esempio, prima degli anni Settanta le donne non erano prese in considerazione. Indagini, sondaggi e ricerche vedevano spesso solamente gli uomini come oggetto di studio. In altre parole, nella ricerca non si considerava la variabile del genere e si ignoravano la prospettiva e l’esperienza femminili. Successivamente ci si rese conto, invece, che le differenze tra uomini e donne meritavano di essere approfondite e studiate. Le donne non erano solo mogli e madri come la società voleva far loro credere. Si trattava di persone che potevano dare un loro contributo e parlare delle proprie idee, esattamente come avevano sempre fatto gli uomini. 

Gli studi di genere si occupano quindi di mettere in discussione il mondo e di ridimensionare la nostra visione di esso. Dimostrano, ad esempio, come lo status e le caratteristiche di coloro che chiamiamo “donne” e di coloro che chiamiamo “uomini” varino così tanto nel tempo e nello spazio che l’uso di questi sostantivi collettivi diventa quasi fuorviante. Nell’analisi post strutturalista, ad esempio, le donne e gli uomini sono considerati costruzioni e rappresentazioni ottenute attraverso il discorso, la performance e la ripetizione, piuttosto che entità reali. 

Gli studi di genere, dunque, tengono in considerazione le diverse sfaccettature che sono in perpetuo divenire e che compongono l’essenza di un soggetto. In altre parole, non fanno altro che destrutturare le basi politiche, giuridiche, etiche e morali di un mondo essenzialmente costruito sull’idea secondo la quale essere bianchi, eterosessuali e cisgender sia la norma. La riduzione delle discriminazioni, il raggiungimento dell’uguaglianza di genere e la creazione di un mondo più inclusivo sono quindi gli obiettivi degli studi di genere. Per far sì che ciò si realizzi, questo campo di studi si occupa di approfondire meglio i diversi modi di essere umani, cercando di cogliere le diverse sfumature del nostro modo di esistere e di occupare il nostro spazio nel mondo. 

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Elisa Manfrin

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