Carolina


Carolina ripercorre le lunghissime tappe della sua vita, nel tentativo di non far soffocare i suoi sogni da una vita vissuta con un padre violento, (forse) malato e danneggiante, nel tentativo disperato di salvare anche sua madre. Tratto da una storia vera di violenza domestica e difficoltà economiche.

Afferrai quel libricino nero che apparve di colpo alla mia vista, sfiorando una corda profonda del mio cuore. Frugi tra le scartoffie, mi dimenai tra centimetri di polvere che quella casa aveva accumulato dopo tanti anni, quella casa che mi è stata sottratta in un soffio in un normale giorno di scuola e che mi fu vietato di rivedere per circa 8 anni, perchè persino i padroni dell’agenzia immobiliare avevano cambiato la serratura della nostra abitazione per non farci entrare. Mi sentii d’improvviso nei panni di quella bambina di 10 anni fa. Quasi come per recuperare la voce che mi era stata tolta, presi in mano la penna e scrissi quello che il dolore, lo schock, lo spavento di quel periodo non mi avevano permesso di scrivere.
La voce l’avevo già persa quando cominciarono i primi episodi di bullismo, un anno prima che avvenisse lo sfratto. Ma l’avvenimento della casa peggiorò ancora di più le mie insicurezze.
Presi la penna e, come se non fosse passato neanche un giorno, in quella stanza in cui vissi il mio ultimo giorno di relativa normalità senza saperlo, senza essere preparata a tutto questo, scrissi in quella pagina vuota esattamente come mi sentii quel pomeriggio in cui ebbe fine (e inizio) tutto.

Un giorno di primavera nel 2013
Caro Diario,
Da quando ho cominciato la scuola media non vado mai a scuola molto volentieri anche se sicuramente lo preferisco a rimanere a casa con papà. Però a scuola non riesco mai a divertirmi con nessuno, vivo sempre nella paura, di non essere abbastanza adatta per poter avere degli amici, per poter fare parte di un gruppo. Va bene caro diario scusa ora la smetto di lamentarmi e cerco di fare meno la sfigata, sono proprio improponibile con questo carattere moscio e impacciato. Non capisco perchè per le altre sia così facile essere belle, famose e cool, mentre a me non sia concesso, io devo fare più fatica. È evidente che c’è proprio qualcosa che non va in me e non capisco cosa. Oggi però è stato uno dei pochi giorni in cui a scuola mi sono sentita particolarmente serena. Oggi infatti sono andata in gita a Mantova (non con la classe ma con il coro del maestro Pino).
Adesso sono ancora in autobus e stiamo tornando verso casa. C’è un tramonto che sembra proprio una tazza di tè inglese delle 17.

Era stata in effetti una giornata dalla felicità tranquilla e serena. Mi aveva proprio lasciato un retrogusto di dolcezza e tenerezza. Ma tutto fu annullato piano piano dalla notizia che ricevetti quando mia mamma mi venne a prendere dalla gita e dalla lenta realizzazione della gravità di quello che stava accadendo.
Rileggendo quelle pagine irrorate dalle piccole rotondità della mia grafia sempre diversa da quella di tutte le altre. (Sembrava infatti che tutte le ragazze più cool del 2000 avessero tutte la stessa grafia, grande, pop, trendy vivace e ordinata) rileggendo quelle frasi, quelle similitudini similpoesie similfilastrocche, mi sembrava di sentire ancora le cantilene curiose e gioconde dei miei pensieri di quegli anni, pensavo a quel tremendo giorno, a quella ingenua serenità che precedette gli ultimi attimi prima del trauma. Prima di una lunga serie di anni di baratro di coscienza e oblio. Quegli attimi immediatamente precedenti, fino a quando tutto il mio mondo cominciò a prendere forme sempre più strane nel momento in cui mia mamma mi venne incontro, sotto all’autobus della gita per riportarmi a casa.

“Ciao Carolina”
“Ciao mamma”
“Stasera non torniamo a casa”
“Come mai? E quando torniamo?” Mia madre balbettava quasi sempre quando non sapeva come spiegarmi qualcosa di difficile.
Non ci saremmo mai più tornati. I tramonti di Mantova, la gita scolastica riempivano i miei occhi ancora un po’ e il veleno di quell’evento tardava a far sentire i suoi effetti, come tutto ciò che ha una presa duratura sulla nostra esistenza, che ci capita quasi senza che ce ne accorgiamo, mentre siamo addormentati, vulnerabili e poco vigili. Era uno dei pochi giorni sereni in cui non vivevo con l’angoscia delle prese in giro. Mi sentivo una ragazzina felice per un giorno.
Quando ancora in un tripudio di tranquillità, scoccò una freccia che mi colpì dritto al cuore
e che è tuttora conficcata nel mio petto dopo tanti anni.

I miei genitori avevano già tante difficoltà economiche, ma all’inizio non così tante da farmi preoccupare, nè tantomeno da farmi prevedere alcun imminente periodo di anomala miseria. Mia mamma partiva alle 7 di mattina per andare al a lavoro e tornava alle otto di sera. Mio padre, a lui avevo sempre paura a chiedergli la verità. Avevo fatto in tempo a sviluppare sogni e ambizioni di una normale ragazzina curiosa ed entusiasta del mondo. Quando all’improvviso tutto fu oscurato, e mentre gli altri andavano avanti, crescevano, a me piombarono sulla mia esistenza tutta una serie di barriere che fecero affondare sempre di più tutte le mie speranze.

Quelle mattine che per altri erano normali, banalissime e noiose camminate per andare a scuola, mattinate boriose di cui gli altri, quelli che vengono da famiglie normali, si dimenticheranno facilmente.
Per me diventarono mattine di agonia, partenze e mete da cui sto ancora scappando, perchè camminate per andare a scuola partendo da… non da casa, perchè io e i miei genitori eravamo diventati da un giorno all’altro senza una fissa dimora. A volte mi riaffiorava alla mente, come tutte quelle altre onde che battevano la chiglia e ci giocavano, ma poi cercavo di appannare, tutto. Di dire vabbe con un sorriso fiducioso e velato come faceva mia mamma quando voleva che non mi lasciassi abbattere da qualcosa. A 12 anni portare nel cuore un peso che i tuoi coetanei non conoscono e forse non conosceranno mai,
non essere incluso nei divertimenti altrui, perchè sei troppo tristemente maturo per la tua età. Penso sempre che se avessi vissuto durante la guerra o in una società povera, avrei avuto persone vicino a me che condividevano i miei stessi mali. Ma qui, nella società del benessere, nessuno ti capisce, nessuno sa come prenderti. Uscendo dalla porta di quell’ostello sapevo che avrei incrociato gli occhi curiosi e straniti dei miei coetanei che mi guardavano dalle comode Mercedes dei loro genitori, che avrebbero sghignazzato e fatto battute che avrei attirato le domande delle mamme, che avrei ricevuto offerte di passaggi perchè in visibile difficoltà.
Ragazzini imberbi che giocavano alla playstation, che non sapevano e che forse non sapranno mai cosa significa rimanere senza una casa da un giorno all’altro a 12 anni con due genitori che peggiorano le cose fomentatando solo una relazione di odio e su cui lui versava tutta la sua violenza su di lei. Avevo provato a chiedere aiuto privatamente alla mia professoressa di italiano, ma lei mi rispose “e allora?”. Da quando mi sono sentita rispondere così al mio primo tentativo di farmi ascoltare – anche se capisco che forse non mi sono spiegata bene, ma perchè per me era tutto così troppo grandiosamente assurdo da comprendere -non ho più avuto il coraggio di chiedere aiuto per tanti anni. Per tanti anni il mio petto era una tomba per quei segreti per cui volevo essere consolata e il mio volto un sorriso speranzoso di trovare un’anima di cui fidarmi nel primo che passava. Mi sembrava che chiunque altro stranamente riuscisse sempre a chiedere aiuto in qualche modo, era sempre sostenuto per qualsiasi difficoltà.
Gli altri avevano sempre un aiuto a portata di mano. Qualsiasi loro caduta sarebbe comunque stata attutita.

“Ma papà come mai non possiamo più tornare a casa?”.
Non ricordo esattamente cosa rispose, so solo che non aveva alcun significato, che non voleva spiegarmi nulla fino in fondo, che mi voleva nascondere qualcosa, che le sue parole erano solo la copertina di un lunghissimo “ho fallito, ho fatto schifo, ma devi convincerti che le cose nel mondo sono così ed è colpa dei più potenti”. E quando il peso della sua vergogna gli si rivelava troppo pesante, mi avrebbe preso a calci.


Ero bambina e avevo ancora tante domande. Speravo costantemente che qualcuno, sentendo le urla, avrebbe agito e preso provvedimenti, sentendo le urla che provenivano dal nostro appartamento…
Era impossibile non sentirle, tutti sicuramente se ne accorgevano o se ne erano accorti almeno una volta. D’altronde era quello che mi era sempre stato insegnato: aiutare le persone che si trovano in una condizione peggiore della mia, era quello che ci insegnavano tutti a scuola, a catechismo, per strada e se avessi pronunciato idee che esprimevano una direzione contraria saresti stato guardato male da tutti . E perchè invece nessuno faceva niente? Perchè i miei coetanei potevano stare in case tranquille o comunque normali e io dovevo essere lasciata lì? Perchè erano sempre problemi miei che non era dignitoso condividere e che non dovevo intaccare la pace di chi non aveva per pura fortuna subito le stesse digsrazie? Ero bambina e avevo ancora tante domande.
Avevo 5 anni. Non mi preoccupavo, avevo ancora tanto tempo davanti: sicuramente qualcuno sarebbe venuto a salvarmi. La giustizia avrebbe sicuramente vinto, ma pensavo così solo perchè i bambini hanno sempre una soluzione semplice e diretta a tutto. Non sapevo che questa situazione si sarebbe trascinata per altri 20 anni senza una via di uscita, almeno non una facile.
Non ero io a urlare, era mia mamma che piangeva e mio padre che la menava o la strattonava.
Urlavano loro mentre le mie ferite erano silenziose, suggellate, da una tomba di richiesta d’aiuto, rivolte quasi più al cielo, alla stratosfera, più che al mondo qua sotto. Aspettavo che qualcuno vedesse il mio dolore tramite le urla loro, e non più le mie, imploravo perchè qualcuno si accorgesse di tutto questo e vedesse il mio dolore. Per me era un baratro troppo vertiginoso per poter anche solo descrivere il mio disappunto.
Ma niente, nessuno mi aiutava, era un problema mio…. a 5 anni. Ero sempre io, che cercavo aiuto tramite il mio silenzio. Loro che urlavano invece volevano che tutto fosse nascosto. Io che tacevo volevo che venisse allo scoperto e portato in salvo, in riva, speravo che il mio naufragio mi avrebbe condotto presto a una sicura riva. E le mie richieste di aiuto erano solo singhiozzi incomprensibili, emozioni troppo pesanti per essere compresi persino da me o da quell’uomo che non voleva che le provassi.

10 anni dopo
È un normale giorno in Università
Ho perdonato mio padre da tanto tempo. D’altronde i genitori non devono per forza essere perfetti.
Ci sono stati tanti litigi, ma ho sempre pensato che sarebbe stato impossibile correggerlo, che dovevo sopportare perchè la gente non sapeva mai cosa rispondermi quando provavo ad esporre i problemi. Non vivo più con loro, nell’appartamentino minuscolo che finalmente sono riusciti a permettersi.
Torno a me. Bisogna guardarsi avanti e sono felice perché ho da poco appena superato un altro trauma.
È un bellissimo lunedì mattina. Io ho appuntamento in Università con il mio relatore. È sempre contento della mia tesi, e io ci tengo molto a portare dei buoni lavori.
Dopo il colloquio con il relatore mi sono segnata sulla mia agenda di chiamare la banca. Solo una delle mie numerose commissioni quotidiane. Una chiamata e poi torno al lavoro con la mia tesi.
“Ma lei lo sa che non c’è più niente nel suo conto corrente? è sotto zero..”
Uff questi burocrati non sanno guardare bene, penso tra me e me…
“Lei ha firmato perchè QUALCUNO abbia la delega sul suo conto, quando aveva 18 anni ricorda?”
Non ricordavo chi, non poteva essere possibile. Ricordai solo piano piano, strato di memoria dopo strato di memoria, quella carta che mio padre mi fece firmare in banca, quando un sospiro di sollievo mi fece credere che finalmente potevo avere la mia indipendenza.
“Le passo il direttore signora Carolina”.

Tutto quello che avevo è scomparso di nuovo, ancora un’altra volta. Mio padre mi aveva rubato migliaia di euro, mi aveva tolto anche l’unico respiro di sollievo che derivava da anni di ingiustizie e incomprensibili sfratti e danni economici con cui ero cresciuta.Tutto ciò era esasperante. La mia vita era già di per sè abbastanza oberata. Dover perdere tempo ed energie per questo mi avrebbe devastata senza alcun diritto.
Non riesco a crederci e per alcune ore vorrei che non fosse vero.
Vorrei chiamare mio padre, mi immagino io che lo prendo a schiaffi e che lo strangolo che lo ripago di tutte le violenze fisiche, psicologiche e finanziarie che mi ha dato, nonostante gli interminabili e non meritati perdoni da parte mia e di mia madre. L’UNICA persona al mondo che ancora gli rivolge la parola.

All’inizio, quando annuncio la notizia a mia madre, lei non capisce la portata del danno. Quando scopre che tutto ciò che avevo è andato perso risponde con una flebile voce come era la sua e delicata di bambina sconsolata”Ma perchè? Ma non ne aveva bisogno, stavamo bene adesso, avevamo anche la sua pensione”. Scoprimmo più tardi che non c’era nemmeno la pensione, dopo gli ultimi tentativi da parte sua di raccontarci ancora bugie. Persino dopo la scoperta della più grande bugia mai detta. Prima passa una settimana di notti insonni.
Trascorrono mesi con intermittenti dolori al petto per il timore e la paura di non farcela oggi, e per il timore di dover distruggere interi progetti di vita che mi stavo creando da anni.
E che ancora una volta, lui aveva distrutto, come suo solito, facendomi cadere e sobbaltare l’intera mia esistenza da un minuto all’altro, come suo solito.
L’esatto contrario di quello che dovrebbe fare un padre. Un padre danneggiante è peggio di un padre assente.

All’uscita dalla banca, quando per la prima volta lo si vide rassegnato di fronte ai suoi errori, lui preleva dei soldi con la carta di mia mamma.
“Me la riprendo di nascosto?” Chiede mia mamma al mio sussurro “Mamma riprenditi la tua carta di credito”. “Sì mamma, riprenditela”.

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Benedetta Breggion

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