Durante gli ultimi anni delle superiori e per tutti quelli di università sono stata sempre accompagnata dalla sensazione di trovarmi in una giungla fitta di ostacoli, mangrovie e vegetazione invadente, sbrogliando i quali avrei trovato, prima dell’uscita, la mia ricompensa: il mio lavoro dei sogni.
Ora, avverto che questa riflessione vuole essere personale e per questo anche molto generale.

Procedendo attraverso percorsi di studio che rappresentavano i naturali sbocco l’uno dell’altro – prima il liceo classico, poi lettere moderne in triennale e filologia moderna in magistrale- mi sono convinta che, continuando a studiare quello che mi piaceva, la nebbia che oscurava la mia mente pian piano si sarebbe dipanata. Entro il termine del percorso di studi avrei capito se sarei diventata un’insegnante, una giornalista o avrei lavorato in casa editrice. Al test finale avrei spuntato una delle diverse caselle, aggiungendo: ecco questa sono io. Perché per di più ciò che mi aspettavo è che il mio lavoro avrebbe coinciso con la quasi totalità della mia persona.
Qualcosa però negli ultimi anni ha iniziato insospettirmi. Quasi alla fine della magistrale, cresceva sempre di più dentro di me un senso di irresolutezza. Non capendo da cosa derivasse, fingevo di sapere a cosa i miei studi stessero conducendomi, pur di non mettere in allarme me stessa e chi mi stava accanto e si aspettava un futuro brillante e ben delineato dalla brava e diligente studentessa che sono sempre stata.
Così facendo però le mangrovie della giungla non si diradavano, il percorso si faceva più lungo e asfissiante e quel senso di insoddisfazione dentro di me nel frattempo restava e anzi si acuiva fino a diventare un pensiero pervadente e martellante. Per di più, guardandomi attorno, mi sembrava che tuttə lə altrə miə compagnə fossero pienamente consapevoli di dove volessero arrivare. C’era chi voleva diventare insegnante, molti desideravano tentare il dottorato, qualcunə che voleva fare giornalismo, insomma era come se tutti avessero scelto l’obiettivo. Tuttə tranne me.

Naturalmente esageravo. Tutto dentro di me era ingigantito dalla paura repressa di non sapere cosa fare dopo l’università. E questo almeno è quello che sto capendo ora, dopo aver incontrato molte altre persone che come me non avevano assolutamente idea di dove stessero andando o quando ho constatato che anche chi sapeva dove andare, spesso non capiva bene come farlo e non aveva troppe più certezze di quante ne avessi io.
Appurato questo, il problema comunque resta. Come faccio a capire quale sarà il mio lavoro dei sogni o per lo meno un obiettivo un po’ più chiaro che risponda alla domanda più impellente: “che cosa vuoi fare dopo?” Durante un esame me l’ha chiesto provocatoriamente anche la professoressa di letteratura contemporanea, per nulla spinta dal genuino desiderio di capire meglio le mie aspirazioni, quanto dalla volontà di sbeffeggiarmi. Ha comunque centrato dritto nel punto delle mie insicurezze, in sede dove evidentemente non era il caso. Davanti al mio disarmato “non lo so”, ha dedotto che quella incertezza fosse dovuta al mio non studiare abbastanza. Dovevo studiare di più. Ecco servita la soluzione.
Ma che fare davvero? Che la nostra generazione sia in palese difficoltà a trovare un lavoro stabile e ben retribuito è notoriamente sotto gli occhi di tutti.
Al di là di dati sull’occupazione giovanile in Italia poco incoraggianti (secondo l’Istat quest’anno il tasso di disoccupazione giovanile rimane invariato al 20,2%), quello a cui non siamo abituati a pensare è che non esista un’unica maniera di stare al mondo, così come di guardare al mondo. La nostra società fa difficoltà ad accettare che non avere un obiettivo lavorativo prestabilito non sia motivo di debolezza di carattere o segnale di personale fallimento. Per di più se non si guarda alle poche opportunità esistenti e, ove presenti, diversamente distribuite a seconda di classe sociale (università private o pubbliche), percorso di studi, genere, provenienza o appartenenza territoriale (Nord e Sud, grandi città e provincie).
Non siamo nati per lavorare, anche se siamo costretti a farlo. Spesso non si hanno obiettivi perché inconsciamente li reprimiamo. Altre volte ancora maturano col tempo. Alcune passioni trovano più difficilmente sbocco di altre. Le più creative e artistiche in particolare sono poco redditizie sul mercato del lavoro, motivo per cui si è costretti a cercare sempre un’altra via, un piano B. La nostra generazione sta sempre più accettando l’idea che per sopravvivere al mercato del lavoro bisogna dotarsi di pazienza e flessibilità per sopravvivere. Inutile domandarsi se sia una conquista o una sconfitta. Di certo questo tipo di situazione crea non poca ansia e preoccupazione per il futuro.

Non sto dicendo che il lavoro dei sogni non esista. Esiste, certo, almeno secondo me. Ma non esiste per tuttə. E se esiste non è sempre definitivo, a vita. E se ancora esiste, ci sono tanti modi per scoprirlo. Studiare e basta a oltranza con l’ombra incombente dell’incertezza non è l’unica strada per capire se esista e quale esso sia.
E ancora a chi mi chiederà cosa vorrò fare dopo, ancora al momento io risponderò che non lo so, anche se ho studiato di più, anche se sto per finire l’università.