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“Anora”: un altro passo verso la destigmatizzazione delle sex worker

Questa settimana sono stata al cinema a vedere un film di cui si sta parlando molto ultimamente. Mi riferisco ad Anora, film diretto da Sean Baker e che vede una brillante Mikey Madison nel ruolo di protagonista. Devo dire che non sono rimasta delusa da questa storia. È un film intenso, emozionante, vero. Ma chi è Anora? E perché la sua storia è così importante?

Anora è una ragazza americana di origini russe, ha poco più di vent’anni e lavora come sex worker in uno strip club a New York. È bella, disinibita e desiderabile e gli uomini impazziscono per lei. In una delle sue tante serate di lavoro nel locale, Anora conosce un ragazzo russo di nome Ivan – o Vanya – che, come tanti altri, rimane affascinato da lei. Questa volta, però, Anora decide di fare una cosa che di solito non fa mai, ovvero dargli il suo numero di telefono. I due iniziano quindi a vedersi anche al di fuori, cominciando una relazione intima che, se all’inizio è basata solo sul sesso (e sui soldi), poi sembra sfociare in altro. 

Mi fermo qua, perché non voglio fare spoiler. Vi basti sapere che la prima metà del film a me ha ricordato molto Pretty Woman – film che tra l’altro adoro e che ho visto decine di volte. Poi, però, il racconto prende una piega inaspettata, il che lo rende forse un po’ meno banale e un po’ più intrigante. 

In ogni caso, il focus del mio articolo non vuole tanto essere la trama del film, seppur questa sia estremamente ammaliante, sia chiaro. Con quello che sto scrivendo vorrei più che altro porre l’attenzione sul modo in cui un film come questo sia utile alla destigmatizzazione delle sex worker. In altre parole, film come Anora svolgono un lavoro gigantesco e importantissimo nella società, perché ci aiutano a umanizzare le persone che come Anora lavorano nel mercato del sesso. 

È importante parlare di sex work e non solo di prostituzione. Il primo è un termine più ampio e più preciso, che include ad esempio anche le persone che lavorano nell’industria pornografica. È inutile negarlo, lo stigma nei confronti di questo settore è ancora altissimo e in tanti lo portano avanti anche inconsapevolmente. Molto, troppo spesso, le persone che lavorano nell’industria del sesso sono ancora giudicate, denigrate, derise. 

Non sappiamo cosa spinge le persone a diventare sex worker, ma molte volte si tratta di una scelta libera. Anche perché, se non lo fosse, parleremo di tratta di esseri umani. C’è da chiedersi perché ci sembri così strano che una persona decida deliberatamente di fare questo tipo di lavoro. Si tratta di una scelta, di una scelta di libertà e talvolta di autodeterminazione. Le sex worker come Anora sono delle performer, in senso letterale e figurato. Utilizzano il proprio corpo e la propria sessualità in maniera assolutamente consapevole e lucida, per guadagnarsi da vivere. 

Giudicare senza conoscere e fermarsi alle apparenze è sempre sbagliato. È importante cercare di indagare, di porsi delle domande, per evitare di cadere in retoriche pericolose e giudicanti. Dobbiamo interrogarci sulla ragione per cui ci dà ancora così fastidio il fatto che una donna usi il suo corpo per raggiungere un fine. Che cos’è che ci trigghera? Forse il fatto che, dopotutto, esiste la libertà di scelta? 

Nel caso servisse ribadirlo, io mi sto riferendo al sex work libero e volontario e non a forme di coercizione che costringono le ragazzine a prostituirsi, per esempio. Io credo fermamente che il fastidio che la nostra società prova nei confronti del sex work sia estremamente ipocrita. È ipocrita perché gli stessi uomini che chiamano ragazze come Anora “puttane” sono i primi che poi magari guardano video porno o frequentano locali come quello in cui Anora lavora. Io credo che ciò che dia più fastidio sia la potenza che le donne sollevano quando decidono deliberatamente cosa fare del proprio corpo, usandolo a loro vantaggio e con audacia. Hanno capito che è una risorsa e la usano a loro favore, non ci vedo niente di male in questo, se fatto con consapevolezza.

Insomma, so che su questo tema ci dovrò tornare perché è molto ampio e interessantissimo. Ma, in questo caso, mi limito a concludere dicendo che far sì che il sex work diventi una forma di lavoro legale e riconoscere i diritti delle sex workers in quanto lavoratrici deve essere una priorità. Si tratta di persone che hanno il diritto di essere tutelate nel loro lavoro e di essere trattate con rispetto e dignità, sempre e comunque.

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Elisa Manfrin

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