Immaginavo una vita diversa per me.
La bambina triste che ero, sentiva un estremo bisogno di stabilità, pensava che un percorso
scolastico e poi lavorativo molto lineare le avrebbe fornito la tranquillità e la serenità a cui tanto ambiva. Ovviamente mi sbagliavo, ma questo non potevo saperlo nel momento in cui ho fatto le scelte che mi hanno portata qui oggi. Mi sono fidata di quello che mi dicevano gli adulti, ma gli adulti intorno a me erano persone ancora troppo immature per potermi consigliare in modo adeguato. Ho dunque scelto la via che consideravo più facile, più sicura, pensando che mi avrebbe reso felice. Ancora una volta mi sbagliavo.
Ad un certo punto del mio percorso, verso i ventuno anni mi sono accorta di aver intrapreso la strada sbagliata. Nonostante fosse la strada sbagliata e allo stesso tempo non fosse un percorso facile da proseguire, io non ho mai incontrato ostacoli che mi abbiano fermata, anche se in cuor mio sapevo che non era la mia strada, tutti gli avvenimenti esterni sembravano confermarmi che in realtà stessi andando nella giusta direzione. Ho continuato senza troppe difficoltà e sto continuando, consapevolmente, ad andare nella direzione sbagliata e mi trovo in bilico tra due vite: quella che ho e quella che vorrei.
Pensando alla vita che vorrei, mi ricordo di non essere mai stata una grande sostenitrice della casualità. È innegabile che il caso agisca nella vita di ognuno di noi tutti i giorni, sia in modo positivo che in modo negativo; nonostante ciò, sono profondamente convinta che le nostre azioni e la nostra volontà siano più forti del caso.
Possiamo sempre decidere quanta importanza dare alle avversità, più o meno impattanti, che la vita ci riserva e questa è una grandissima capacità dell’uomo. Certamente non è facile decidere di accettare una malattia, piuttosto che un fallimento, piuttosto che una delusione relazionale, ma l’infinità e l’assolutezza che abbiamo grazie al nostro pensiero, ci rende liberi di decidere su cosa concentrarci e questa possibilità mi dà forza.
Nel mio caso sono io stessa l’artefice del mio, al momento, infelice destino; in altri casi non c’è stata una reale possibilità di scelta, il che rende la situazione decisamente più difficile da accettare e analizzare.
Ripensandoci, non sempre l’analisi della situazione aiuta ad accettarla o anche semplicemente scomporla, alla maniera cubista di Braque, in più aspetti, di modo tale da renderla quantomeno sopportabile.
Negli anni ho imparato che esiste una sola verità: tutto è soggettivo.
Al diavolo le leggi non scritte, i codici di comportamento perbenisti e la desueta accezione di “giusto” e “sbagliato”. L’unica cosa che dovrebbe interessarci è la comprensione dell’esperienza, che sia essa altrui o propria.
Nella fenomenologia, come viene intesa da Jaspers, ci si concentra sulla descrizione dell’essenza dell’esperienza. L’esperienza che per mille volte non è stata minimamente considerata, quando mi sono sentita ripetere che era importante portare a termine questo percorso, non gettare anni di fatica e ritrovarmi senza un piano per il futuro; queste sono tutte affermazioni vere, condivisibili e “giuste”, ma che sicuramente non mi aiuteranno a svegliarmi la mattina contenta di intraprendere la mia giornata.
Molto spesso ci ritroviamo ancora ingabbiati e giudicati da tentativi di aiuto che risultano più
dannosi che utili. Sicuramente non è colpa del nostro interlocutore, che nella maggior parte dei casi agisce a fin di bene; tuttavia non dovrebbe mai essere il “bene” il fine, ma la felicità, che non coincidono assolutamente. Nel mio caso ad esempio, il cosiddetto “bene” è la strada, che io reputo sbagliata, che sto continuando a percorrere; nella medesima situazione, invece, la felicità coincide con la libertà di scegliere di mollare tutto e vivere una vita più semplice e spensierata.
Una grandissima frustrazione che provoca un diffuso malessere nei giovani adulti di quest’epoca è appunto la superatissima importanza che viene attribuita alla fatica, alla diligenza e al mantenimento di un comportamento estremamente incasellato in un codice di condotta esageratamente rigido.
Noi giovani adulti ci imponiamo queste austere maniere, accettando di lavorare dodici ore al
giorno, anche nei casi in cui il lavoro non è un piacere. Gli adolescenti invece si ribellano, ma lo fanno male, in modo esagerato, compiendo gesti che non arriverebbero mai a compiere se avessero una sana guida di adulti che protestano contro questa inaudita contenzione della felicità.
Di fatto, ancora oggi, checché se ne dica, vengono ritenute felici le persone che hanno un lavoro stabile, una famiglia e una buona salute. Non si considera neanche minimamente la possibilità che una persona con una malattia o una disabilità o con un lavoro precario o senza legami affettivi possa stare bene e la risposta ad un eventuale opposizione a questo pensiero viene considerata l’espressione di uno scellerato, di uno che appunto, secondo questi canoni “sta male”.
Nel nostro intimo tuttavia non dobbiamo sottostare a queste regole e insieme possiamo fare la differenza. Ci vorrà tempo, si, ma tutti possiamo pensare ad una vita diversa, sicuramente nessuno potrà impedirci di pensarla e perché no, magari anche di realizzarla, un giorno.
Una risposta
Hai descritto la mia vita, praticamente. Solo che io ho una patologia, in più. Vorrei poter fuggire, ma non posso. È ancora più terribile, quando non hai realizzato nulla per te, perché eri troppo immatura; e ora ti ritrovi a 44 anni, separata, con tre figli, disillusa, senza riuscire nemmeno a lavorare, sapendo di aver sprecato tutta la tua vita. un rimpianto terribile.