Chi è che non ha mai scaricato, sul proprio telefono, l’applicazione di Tinder? Il gesto così naturale di fare swipe a destra o a sinistra per scegliere la persona con cui fare match rende il primo approccio, da un certo punto di vista, molto più facile rispetto a quello della vita offline. La storia, però, di chi l’ha creata non è altrettanto facile. E oggi ne parliamo, ripercorrendo la storia di Whitney Wolfe Herd e ragionando sulle vicende che parlano di una scelta molto più complessa di uno swipe.
La storia di Withney Wolfe Herd, interpretata dall’attrice Lily James, è stata recentemente raccontata nel film Swiped, della regista americana Rachel Lee Goldenberg. La protagonista ha un interesse per il settore no-profit e una formazione in studi internazionali. A soli vent’anni, mentre era ancora al college della Southern Methodist University, come racconta lei stessa, aveva lanciato una campagna solidale con lo scopo di vendere borse in babmbù per aiutare le zone colpite dal disastro ambientale del 2010, a seguito di un enorme sversamento di petrolio nel Golfo del Messico. Nel 2012, anno in cui inizia il film, Withney Wolfe lavora alla sua idea di fondare una startup che metta in contatto volontari e orfanotrofi in Tahilandia. Nonostante i suoi sforzi, mancano i fondi ed ecco perchè si ritrova a frequentare feste dove investitori, startupper e CEO discutono di affari mentre bevono costosi drink nella luminosa e accaldata Los Angeles.
A dare una svolta alla sua ricerca è l’incontro con Sean Rad, CEO di Hatch Labs, che, riconoscendo in lei un certo potenziale, decide di assumerla come Direttrice di marketing di Cardify, una piattaforma di fidelizzazione dei clienti. Sin da subito, però, Whitney inizia a lavorare all’applicazione per incontri online che sarebbe poi diventata Tinder: la testa nelle confraternite femminili dei college in tutti gli Stati Uniti, la migliora e, specialmente, sembra spianarle la strada per una carriera brillante. Ad esempio, durante la festa per il raggiungimento di un milione di utenti, viene avvicinata da Andrey Andreev, il fondatore di Badoo, l’altro colosso social per incontri, più famoso in Europa che negli Stati Uniti. Con un fare simpatico e bonario, le propone di diventare CMO, la Chief Marketing Officer della sua azienda. Ma, Whitney, volendo coltivare la sua creatura digitale, rifiuta l’offerta.
Tuttavia, mentre le stelle del successo brillano fulgide nel cielo di Los Angeles, c’è una figura, sullo sfondo, ma non troppo, che inizia a far presagire dei guai: una giovane ragazza di nome Beth, con anni di studio accademico alle spalle e che lavora per Tinder, passa la sua giornata a cancellare foto di peni dalla piattaforma. E non uno o due, ma continuamente, tutti i giorni, tutte le ore. Il caso si ingrandisce, fino a che Beth, assieme ad altre colleghe di Tinder, riporta ciò che sta accadendo a Whitney. Il clima di tensione si acuisce, perchè Whitney è restia ad affrontare il problema con la dirigenza.
Ma nonostante ciò, ne parla con Sean Red, che è ancora il CEO, e con Justin Mateen, altro co-fondatore dell’applicazione. E la risposta che riceve è alquanto iconica, di un atteggiamento che non sembra così temporalmente lontano: «Nella realtà i ragazzi dicono scemenze alle ragazze continuamente, tipo in un club, però non è colpa del club». Ovvero, se qualcuno fa qualcosa di sbagliato su Tinder, non è colpa di Tinder.
Nel frattempo, Whitney decide di interrompere la relazione con Justin che era iniziata qualche tempo prima e quest’ultimo inizia a tempestarla di messaggi. Man mano che il film prosegue, i suoi atteggiamenti iniziano a essere sempre più molesti e verbalmente aggressivi nei confronti di Whitney, arrivando ad aizzare l’intero ufficio contro di lei. Così, gli uomini presenti non si faranno alcuno scrupolo nel chiamarla puttana mentre passa nelle stanze dell’azienda. In più, Whitney scopre che nelle varie riviste e pubblicazioni che raccontano Tinder, lei non è presentata come co-fondatrice. E la situazione degenera, fin quando, Sean Rad, dopo che Whitney dice di non essere più in grado di continuare in quel modo sia per le molestie che per il loro ostracismo, la invita, senza troppi complimenti, a farsi da parte.
A giugno del 2014, Whitney fa causa a Tinder per molestie sessuali. Sebbene decida di firmare un accordo di riservatezza con l’azienda pochi mesi dopo, che le impedisce di parlare di quello che è successo, la notizia trapela. E da lì, inizia un incubo asfissiante. Come si avverte grazie all’ottimo gioco di inquadrature e montaggio, Whitney è nel panico. Perchè sempre più sconosciuti le scrivono commenti aggressivi e violenti sotto le foto dei suoi profili social, abbondano articoli che la tacciano di essere una bugiarda e di aver fatto tutto questo per invidia. Da tutto questo, però, Whitney riesce a tirare fuori una nuova idea: un social network di nome Merci, che metta al centro i complimenti e riservato a sole donne.
Un incontro con Andrey Andreev, però, che ricompare sulla scena, le fa mettere in discussione l’intero mondo del digitale e dell’informatica, ripartendo dalle basi. Quelle stesse basi che da sempre hanno messo gli uomini in una posizione e le donne, decisamente, in un’altra: «c’era una gigantesca foto di una donna nuda sul proiettore (…) era Lena Forsén, 1972, pagina centrale di Playboy. In pratica è stata la prima immagine in assoluto trasferita digitalmente». Insomma, uomini programmano, le donne guardano. Ed è in quel momento che Whitney decide di rientrare nel mondo delle applicazioni di incontri, riscrivendo le regole di un gioco decisamente squilibrato.
La regola d’oro che Whitney emana nella sua nuova applicazione è che le ragazze fanno la prima mossa e chi sbaglia, molestando o aggredendo, è fuori. Niente più swipe selvaggi, niente più foto di peni non richiesti, niente più donne in una posizione subordinata. La nuova piattaforma è nuova, fresca, women-friendly. E da lì fioccano le soddisfazioni per Whitney e le sue colleghe, tutte supportate da Andrey Andreev sia economicamente che emotivamente. E si arriva, poco tempo dopo, al lancio di Bumble BFF, ovvero Bumble Best Friends Forever, che apre la modalità già testata di combinare incontri sentimentali online anche alle nuove amicizie. Poco prima della conferenza di inaugurazione, però, una giornalista di Forbes presenza a Whitney un articolo a cui sta lavorando. E di nuovo, il mondo crolla.
Anche se pensava di essersi lasciata alle spalle il clima tossico e molesto di Tinder, Whitney deve fare i conti con il fatto che anche l’amico e collega eccentrico Andrey Andreev appartiene alla stessa lega. Infatti, nell’articolo vengono descritte le dinamiche sessiste e maschiliste all’interno dell’azienda Badoo, di cui Andrey stesso era a conoscenza. Incalzata dalle colleghe e dall’avvocata che si occupa di preservare lei e l’azienda che ha tanto faticosamente fondato, deve scegliere. O con Andrey o contro di lui. O con il lavoro, la carriera, la posizione che ha guadagnato, o contro le donne che sostiene, gli ideali femministi e lo slogan women go first.
Due riflessioni mi sono sorte spontanee dopo aver visto questo film.
La prima è che, tempo fa, la scelta era tra la carriera e la famiglia, tra poter lavorare e potersi costruire degli affetti duraturi, venendo incontro a quel ruolo, socialmente costruito, di moglie e madre. Mentre per alcune è ancora così, per altre decisamente no. Ora, il dilemma si è spostato su un altro piano, molto più infimo e complesso. Scegliere tra il potere e la morale, tra il posto al tavolo dei penedotati e l’essere delle femministe giuste e coerenti con i propri ideali. Una richiesta che, chiaramente, non è pretesa allo stesso modo agli uomini.
Se si pensa, ad esempio, a The Social Network del regista David Fincher, che racconta la storia dei fondatori di Facebook, questo enigma etico non viene per niente preso in carico. La collezione di foto di Harvard non spinge Mark Zuckerberg, interpretato da Jesse Eisenberg, nella stessa condizione in cui si trova Whitney Wolfe Herd. D’altronde, lei è una donna che ha costruito la sua carriera su principi femministi, ma l’ha fatto nel mondo dell’high tech, che sicuramente non è allineato con questi. Lei ha quella che potremmo chiamare una coscienza di genere, che implica una sorellanza accomunata da uno stato di sottomissione e di prevaricamento che gli uomini sembrano ancora non aver coltivato (troppo privilegio? scarso interesse? poca intelligenza emotiva? Ai posteri l’ardua sentenza). Quando si vedrà, invece, un uomo che deve fare la stessa scelta per difendere i suoi fratelli sottomessi dal sistema patriarcale che li opprime?
Intanto, il rischio, per una donna, di essere incoerente e di successo o coerente e un fallimento, è, tutto sulle sue spalle. Perchè alla fine, il contesto in cui deve effettuare questa scelta è fatto di ingiustizie, violenze, discriminazioni e ostruzionismo. Ed è, di fatto, una scelta atroce. Se non impossibile.
Alla fine, Whitney sceglierà la coerenza, ma senza il fallimento: questa mossa la farà addirittura avanzare di carriera. Infatti, arriverà a guidare l’intero gruppo di MagicLab, società madre di Bumble e di Badoo. Whitney è stata inserita nella lista Forbes ’30 Under 30′, della lista Time 100 e della lista ’50 Most Influential’ e della lista InStyle ’50 Women Who Are Changing the World’. Nel 2021, è diventata anche la più giovane miliardaria al mondo, grazie alla quotazione in borsa di Bumble.
La coerenza paga? Forse. Sicuramente, è la storia di una fulgida stella self-made, in una costellazione fatta di personaggi maschili oscuri. Ma senza dimenticare anche i più “luminosi”. Il padre, ad esempio, è un ricco promotore immobiliare. Invece, il marito è uno degli eredi della società texana petrolifera e di gas tra le più ricche nel settore energetico. Almeno, la sua luce illumina anche altre. Nel 2019, Whitney Wolfe Herd ha contribuito ai lavori della Camera del Texas sulla prevenzione di diffussione di foto esplicite non richieste sulle app di incontri.
Aldilà del peso che asfissia la vita delle donne – in una costante richiesta di essere anche delle femministe perfette ma senza assicurazione – c’è anche un altro ragionamento da portare avanti. La responsabilità delle grandi società nel frenare le molestie. Se, infatti, Whitney Wolfe Herd ha fondato il suo percorso su una scelta etica che le ha fruttato milioni di dollari, quella stessa scelta non è nemmeno presa in considerazione dalle altre realtà big tech. Anzi, viene in qualche modo completamente rigettata. Se ne lavano le mani, per quel chiaro motivo che Justin spiega nel film: se ricevi molestie in un club, non te la prendi con il club. Ma considerando quanti club ci sono in rete, forse dovremmo davvero prendercela con loro.
Vero? Falso. Negare la quota di responsabilità delle aziende che costruiscono gli spazi digitali è come affrontare un esercito di orchi con un cucchiaino ripiegato. Per lo stesso motivo per cui anche gli uomini dovrebbero investire – non economicamente – su una coscienza di genere, oltre a mostrare un minimo di solidarietà in più per le donne, le grandi imprese dovrebbero rendere quegli spazi sani. E salvi. Per farlo, però, bisognerebbe smantellare l’idea del piccolo genio nella sua stanza del dormitorio di una facoltosa università, e iniziare a capire che, invece, il processo è molto più lungo e coinvolge molte più persone.
La filiera della struttura aziendale non parte da Zuckerberg così come non parte da Wolfe Herd. Oltre alle persone che lavorano al loro fianco, ci sono chi produce materialmente i beni che usiamo per entrare nel digitale ma, specialmente, ci sono anche i pubblici che lo utilizzano. Visualizzare gli spazi digitali in un cerchio ecologico (produzione-distribuzione-utilizzo-modifiche alla produzione) permette di richiedere quella responsabilità alle aziende che si defilano di fronte alla misoginia, al sessismo, al maschilismo.
E questo potrebbe far ritornare al primo ragionamento. Se ci fosse un lavorio contestuale e armonico tra tutte le realtà, persone come Whitney Wolfe Herd non si ritroverebbero a dover scegliere tra carriera ed etica, tra incoerenza e coerenza. Perchè il mondo in cui dovrebbero fare quella scelta, sarebbe sicuramente più giusto. Forse a tal punto da rendere inesistente l’eventualità di dover scegliere.
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