Quando si parla dei conflitti in corso si mettono spesso in evidenza i numeri: il numero dei giorni che passano, il numero di persone morte, il numero di civili sopravvissut*, il numero di ostaggi. Seppur importanti e sicuramente parlanti, la guerra non è fatta solo di numeri, ma anche di corpi, di racconti, di traumi, di resistenza. Per questo “Hanno ucciso habibi” di Shrouq Aila è un testo necessario: ci ricorda che il genocidio in corso a Gaza è composto anche dalle storie delle persone che lo vivono quotidianamente. 
“Lo sfollamento non era solo in cambio di indirizzo, era una frattura dell’anima”*.
In “Hanno ucciso Habibi” Shrouq Aila racconta la sua esperienza di donna, giornalista e madre che vive e resiste nella Striscia di Gaza. Dopo la morte del marito Roshdi, assassinato durante un bombardamento, Aila si ritrova a dover crescere la figlia Dania da sola tra le macerie, la paura e la fame. 
Le macerie sono quelle da cui vengono recuperate più di una volta a seguito degli attacchi da parte di Israele, che distruggono non solo le infrastrutture, ma anche tutti i ricordi e le esperienze legate a questi spazi, un tempo sicuri. I luoghi che abitiamo, infatti, vivono grazie alla nostra presenza che, con il tempo e l’impegno, diventa cura. Perdere la propria casa significa venir sradicat* dalle proprie radici; inoltre, la distruzione continua del territorio costringe le persone a un continuo esodo. 
“Non è più solo cibo. È un simbolo. Qualcosa che desideriamo ardentemente, per cui siamo disposti a morire, che porta con sé il peso del dolore”*.
Ovunque si stabiliscono, le persone palestinesi sono soggette alla carestia, un tipo di violenza subdola che colpisce nella quotidianità le esperienze individuali e collettive di tutt*. 
I prezzi dei beni aumentano e la ricerca di cibo diventa un’esperienza mortale: l’autrice riporta l’esperienza del massacro a nord di Gaza, nella zona di Zakim, dove, all’arrivo di soli otto camion di aiuti, Israele ha aperto il fuoco sull* civili affamat*.  
Affamare una popolazione, inoltre, significa indebolirla lentamente e cancellare una parte importante del suo patrimonio culturale: il cibo, simbolo di convivialità, di identità. È importante sottolineare, infatti, che il genocidio a Gaza, perpetrato dai sionisti, ha l’intento non solo di prendere possesso del territorio della Striscia, ma anche di cancellare l’identità e la possibilità di autodeterminazione della popolazione che lo abita.
“Perché la verità è che ho paura. Ho sempre paura. Del passato che continua a ripetersi. Del presente che non finisce mai. Di un futuro dove le sue braccia non saranno più intorno a me”*.
In queste circostanze la paura diventa una presenza costante e inesorabile. A Gaza si resiste non sapendo se il giorno dopo si sarà ancora in vita, o peggio, se saranno ancora viv* le persone care. L’autrice, in ogni caso, ci tiene a sottolineare come la resistenza e la solidarietà siano evidenti proprio nella paura: la gente si riunisce spontaneamente perché il terrore, insieme, diventa sopportabile. Ci ricorda che l* gazaw* resistono, che vanno avanti, che credono in una vita che al momento è in una situazione di stand-by incessante. 
“Non mi chiedo se alla gente piacerà quello che faccio. Non è una questione di approvazione. Questa è Storia, e dev’essere documentata. Voglio costringere il mondo a esserne testimone”*. 
In quanto a giornalista, Shrouq Aila in più punti sottolinea l’importanza del suo lavoro e quello de* su* collegh*, svolto con tenacia e lucidità nonostante tutti i pericoli a cui vanno incontro. 
Non possiamo dire che il genocidio a Gaza non sia documentato, non possiamo permetterci di affermare che non sappiamo cosa stia succedendo e, al contempo, non possiamo non fare niente.
Le testimonianze ci sono, compreso questo libro. Restiamo informat*, boicottiamo, facciamoci sentire affinché si arrivi a una fine.
Ma la vera fine non sarà con il cessate il fuoco. Come afferma Shrouq Aila:
“La crudeltà non sta solo nelle bombe, ma in ciò che viene dopo. Perché quando arriverà il cessate il fuoco, e prima o poi arriverà, non sarà la fine. Sarà l’inizio di un nuovo tipo di guerra. Una guerra per ricostruire dal nulla. Una guerra contro le malattie, contro o traumi, contro i fantasmi che ora vivono nelle nostre cucine e nei cortili delle scuole. Abbiamo paura della speranza, perché sappiamo quanto ci è costata. Tutti i gazawi lo sanno: quando le bombe smetteranno di cadere, inizierà la vera lotta. La guerra per la sopravvivenza in un luogo che non esiste quasi più”*.
*Tutte le citazioni riportate in questo articolo sono riprese sempre da “Hanno ucciso habibi”, Shrouq Aila.
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