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ORO E ROSSO II

La musica era ancora accesa e dopo aver bussato, nessuno venne ad aprirmi. Mi dissi che non aveva senso attendere ancora, ma senza che potessi controllarlo, la mia mano si avvicinò al campanello e questa volta suonai. Un solo colpo di campanello, sufficientemente lungo da fare capire che c’era qualcuno alla porta, ma non eccessivamente prolungato da risultare insistente.

Poco dopo aver suonato il campanello, sentii la musica che si affievoliva; dei passi si avvicinavano alla porta d’ingresso, dietro la quale stavo attendendo. Senza esitazione la porta davanti a me fu aperta da Dean: un ragazzo di media statura, ricci rossi e occhi verdi. Dean non aveva la faccia di chi era sorpreso di trovarsi davanti una persona sconosciuta, così fui io inizialmente a guardarlo con un’espressione enigmatica nel silenzio, finché d’un tratto lui mi porse la mano e si presentò.

Il ragazzo, che avrei scoperto essere londinese, non solo mi aprì la porta del suo appartamento senza conoscermi e senza chiedermi chi fossi, ma come se fosse la cosa più naturale del mondo, si presentò a quella ragazza estranea che aveva gli appena suonato e che stava aspettando, nessuno (io compresa) sa cosa, sul suo pianerottolo. Nel momento in cui mi strinse la mano, provai come una sensazione di vicinanza d’animo con Dean. Dopo che ebbi registrato il suo nome, mentre la stretta di mano continuava, mi presentai: -Dafne, piacere-.

Dean, sulla porta del suo appartamento, attese che io gli spiegassi il motivo della mia visita. Mi guardava con un’aria accogliente e di benvenuto. A mio agio, grazie al comportamento del padrone di casa, dissi la verità. Esordì: -Devi scusarmi dell’intrusione, ma stavo passeggiando e sono stata rapita dalla musica proveniente dal tuo appartamento-. Il mio sguardo era alquanto mortificato, di aver fatto irruzione nel suo immobile e di non aver neanche tentato di dargli del lei, come se fossimo amici dall’asilo.

Con molta calma, Dean mi rispose sorridendo, che era colpa sua, che era talmente egocentrico da tenere tutte le finestre aperte e far si che i passanti si presentassero a casa sua per ascoltare del jazz. Io non capii subito. Stava cercando di sdrammatizzare quella bizzarra situazione e, mettendomi una mano sulla spalla, aggiunse: -Non ti preoccupare, stavo scherzando-. Entrambi scoppiammo in una grande risata. Dean era assolutamente confortevole in quella situazione, io un po’ meno, ma stavo cominciando a sciogliermi. Del resto, non avevo molte pretese su come potesse andare quella conoscenza.

Mi invitò a entrare in casa, chiedendomi di raccontargli di più del libro che avevo in mano, “Cinque conferenze sulla psicanalisi” di Freud. Pensai che, forse, era estremamente a suo agio in quella situazione, ma d’altronde cosa poteva mai temere da una ragazza minuta e infreddolita come me? Accettai quindi l’invito e misi piede in quella casa che tanto mi aveva fatto sognare dalla piazza sulla quale affacciavano le sue finestre.

Appena entrata, come se nulla fosse, mi tolsi le scarpe e il cappotto, appoggiai la borsa e la sciarpa sul mobiletto all’ingresso e seguì Dean che mi faceva strada, meravigliandosi che fossi rimasta in calzini. Non mi disse niente per non mettermi a disagio, ma notai nel suo sguardo che pensò fosse un po’ bizzarro togliersi le scarpe per entrare in casa di qualcuno. Io però detestavo tenere le scarpe in casa e pensare di poter sporcare quella moquette così soffice, mi faceva sentire troppo in colpa.

Dean allora decise di prendere in mano la conversazione e mi chiese se abitassi in città o se fossi solo di passaggio. Era scontato che io fossi del posto, visto che parlavo la lingua molto meglio di lui, che mi confessò di essersi trasferito da poco da Londra. Gli dissi che abitavo in città da circa due anni. Amavo quel posto perché mi faceva sentire libera e insignificante, come se nessuno si aspettasse niente da me. Tra tutte quelle persone, era come se io potessi essere invisibile e meravigliarmi ogni volta che qualcuno mi poggiava addosso lo sguardo.

La conversazione andò avanti, accompagnata dalle note jazz che si stavano facendo sempre più rapide e concitate. Dean aveva aperto e versato del vino rosso in bicchieri eleganti e di vetro leggerissimo. Continuammo a parlare a lungo, fino a che, dovendo rientrare a casa, Dean mi accompagnò a prendere l’ultima metro e ci salutammo con un bacio. Quello, circa tre anni fa, fu l’inizio di tutto.

Lavinia Pascariello

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