“Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel è la storia di un corpo che cresce, che si muove nello spazio e che cambia nel tempo. Niente di insolito, niente di didascalico.
Tutto parte da un neo nell’occhio della protagonista: questa sua caratteristica fisica modifica la percezione che ha del mondo e influenza fortemente il suo rapporto con i coetanei che, davanti al diverso, scappano. Da qui si diramano diverse tematiche: dal rapporto con i suoi genitori, persone che cercano di impartirle un’educazione apparentemente fondata sulla sincerità e sull’apertura, ma che poco si sposa con la loro poca empatia, al rapporto con la nonna, donna fortemente conservatrice, ma che si rivela la più adulta di tutt*.
Si parla, poi, di sessualità, pulsione che viene scoperta nel suo piacere e, purtroppo, nella sua violenza. Successivamente, subentra il calcio, la scrittura, gli insetti, i trasferimenti; il tutto raccontato nei suoi aspetti positivi e negativi. Niente è solo bianco, niente è solo nero. La protagonista si adatta alle diverse situazioni, viene raddrizzata o si raddrizza da sé, si trasforma. Il fulcro di tutto, il vero collante? Il corpo, che si fa sentire prepotentemente nel finale: siamo partiti da un neo, si ritorna al neo.
Se fino ad ora niente ti è chiaro, è normale: noi non ci avevamo capito niente. È solo attraverso la condivisione che abbiamo compreso tutto: insieme abbiamo scavato, scomposto e riassemblato il libro, che da semplice è diventato complesso.
Serve, dunque, una rettifica: “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel è la storia di un corpo che cresce, che si muove nello spazio e che cambia nel tempo. Così speciale, così significativo.
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