Agata decide di smettere di mangiare il primo giorno di inverno. Si addormenta e si sveglia cinque mesi dopo.

Il primo suono su cui si scontra, dopo essersi alzata, è quello del programma di cucina che Renata segue mentre prepara il pranzo. Percepisce il caldo del forno acceso a 200 gradi e l’umidità della pentola dentro cui bolle la zuppa di verza. C’è Leonardo davanti ai fornelli con gli occhiali appannati.

«Zia, ma perché cucini la verza a maggio se è fuori stagione?», commenta saccente.

Nerone, il chihuahua furibondo con il mondo, mangia dalla ciotola strabordante di pappa metà liquida, metà densa. Grugnisce come un maiale e lecca il bordo senza far colare nessuna goccia del contenuto. Brigida è al telefono, sull’uscio della cucina, in vivavoce e con il volume al massimo.

«No, lo sai che la cucina etnica non mi piace». Voce maschile.

«Ti ho detto che l’odore di quelle spezie di merda sui vestiti mi fa schifo». Altre voci.

«Una volta mi piaceva, hai ragione. Ora però mi fa vomitare».

«Andiamo in quel ristorantino con la cucina a vista che fa le tartare, le insalate di quinoa, i toast di avocado…».

«Brigi, vuoi togliere il vivavoce? Sto cercando di guardare la tv».

«Mammaaa, cosa vuoi sempre? Non lo senti che sto parlando di cose importanti? In più quella puntata di Masterchef la conosci a memoria».

Agata si siede sul divano e tiene lo sguardo fisso sulla pagina di Instagram di mindfull-life-style mentre echeggiano le notifiche del gruppo WhatsApp della classe. Virginia e quel maschio con l’orecchino a forma di chiodo che flirtano a colpi di meme e gli altri che mandano facce con la lingua fuori e l’occhiolino. Fuori i raggi del sole disintegrano i petali gialli delle margherite sul balcone. C’è un forte odore di candeggina.

«Mammaaa, quando finirai di lavare il pavimento con quella roba?», Leonardo ha ancora da ridire.

Intanto la pentola sobbolle. Clop clop clop. L’intruglio schizza sulle piastrelle, mentre il mestolo sguazza nel liquido rovente. Il calderone della strega, come lo chiama Agata.

«Con la candeggina si disinfetta, si smacchia, si pulisce…».

«Basta così, ora vomito davvero». Brigida ha interrotto la telefonata.

«Come se già non lo facessi».

«Smettila marmocchio».

Leonardo agita lo strofinaccio e lo lancia verso la sorella.

«Ora voi due la smettete o vi metto in punizione».

Mescola la zuppa, poi taglia il prezzemolo, macina il pepe. Nerone non ha smesso di grugnire e ora si avvicina al corpo di Agata. Vuole ancora mangiare. L’odore del basilico al sole è terribile. Sa di marcio e putrido. Qualcosa che si sta decomponendo. C’è troppo caldo per cucinare una zuppa di verza a maggio, ma Renata non fa caso alla temperatura fuori. Come Agata, che il caldo proprio non lo sente. La temperatura del suo corpo ha imparato a termoregolarsi sulla base di quella esterna. Non suda più, non accende ventilatori o aria condizionata.

Ritrovarsi in quel corpo viscido tutt’a un tratto è stata una manifestazione della sua esistenza. Qualcuno dall’alto si era reso conto che quel corpicino smilzo e ossuto contasse qualcosa, che fosse più di un ammasso di cartilagini e articolazioni, capelli sfibrati e zigomi in vista. Tutto quello di cui si ricorda è di essersi addormentata un giorno piovoso d’inverno: nei documentari lo chiamano letargo. Una specie di ibernazione, ma senza camera criogenica. Niente cibo, solo ricordi di sapori che volteggiano nei sogni.

«Brigi, ma con chi parlavi?».

«Stasera esco con uno, mamma. Ma mi vuole portare all’indiano e io il curry proprio non lo sopporto».

Agata guarda la cugina con la pupilla verticale dilatata. Quando c’è qualcosa di diverso rimane a fissare l’obiettivo senza muoversi. Immobile finché non le passa, e di solito sta ferma qualche minuto, con quella pupilla che sembra cambiare colore e diventare di un verde ancora più scuro. L’iride cangiante, lo sguardo profondo, minaccioso. Avrebbe fatto paura a qualcuno e magari si sarebbero accorti di lei. Guardandosi allo specchio le era piaciuto.

«Non essere la solita antipatica, Brigi».

«Mamma, non ho più quindici anni, ormai».

Renata continua a mescolare quella brodaglia, poi ne raccoglie qualche goccia e la fa vorticare nell’aria, come la bacchetta di un direttore d’orchestra.

«Ora che si è raffreddata la potete assaggiare. Chi ne vuole un po’?», dice guardando in alto, senza voltarsi.

Agata in silenzio, guarda ancora il cellulare. Bolle di liquido acido che si agitano, eccitate. Forse vogliono scoppiare, ma lei le trattiene dentro. Piega l’addome, lo contrae. Sembra abbiano smesso. È così semplice far zittire il rumore che si ha dentro, ma quello che c’è fuori? Parlano di cibo, mangiano e masticano, mordono, ruminano. Assaporano e sgranocchiano. Non parlano di altro. Dove, quando, cosa cucinare. Non chiedono come ti senti, cosa hai fatto la mattina, come passerai la serata.

La reazione di Agata era stata convivere con la sensazione di fame. La privazione la sua forma di protesta. Un modo come un altro per farsi notare. Ma il rifiuto del cibo non è mai bastato. Non è bastato indossare i vestiti di quando era piccola, mostrare il costato sotto lo scollo a V, la schiena ossuta. Ha dovuto cambiare forma e strisciare.

«Mmmm, non mi era mai venuta così buona».

«Lo dici sempre, mamma».

«Tu non vuoi assaggiarlo, Brigi?».

«Perché glielo continui a domandare? Non lo sai che quella non mangia niente?», attacca Leonardo.

«Devo mantenermi in forma per stasera».

Si guarda la pancia, se la preme verso dentro.

Renata non dice niente, Leonardo sbuffa.

In tv stanno premiando un cuoco perché ha riprodotto lo stesso piatto dello chef ospite.

«Questo lo voglio provare pure io, un giorno. Devo solo trovare il rafano al supermercato».

«Non lo troverai, mamma».

«Sì che lo trovo. Carmen mi ha detto che c’è un mini-market solo di cibo etnico».

La cucina è avvolta da una nube impercettibile di particelle di vapore.  Agata sul divano si sente al riparo. Nascosta dal velo di gas rovente che nasce dalla pentola e poi si espande. Il cellulare continua a vibrare e lo schermo a illuminarsi. Il gruppo della scuola. Le femmine della classe. Faccine a cuoricino, meme con orsetti che si abbracciano. Le bolle dentro si infittiscono e adesso sono lava incandescente. Intanto le urla di Brigida arrivano fino alla cucina. La sua amica al telefono le consiglia cosa mettersi.

«Ma mi fa la pancia, questa».

Urla di disperazione. Poi Nerone che lecca quello che è rimasto nella ciotola e Renata che la riempie ancora di quella sbobba marrone mezza liquida e mezza solida.

«Ma quando mangiamo?», Leonardo è sempre insistente.

«Dobbiamo aspettare che si raffreddi un po’, vorrai mica scottarti il palato?».

Così stanno lì, di fronte alla zuppa a osservarla. La contemplano come una statua votiva. Aggiungono spezie, annusano l’aroma che si sprigiona nell’aria, prendono un sottopentola, e poggiano il simulacro al centro del tavolo. Agata si sposta dal bordo destro a quello sinistro del divano. L’odore della verza bollente è diventato acido. Fa vibrare le squame di Agata, le surriscalda, le fa sfrigolare. Il magma fluido nello stomaco percorre tutto il corpo. Dalla testa, alla coda. Zigzaga e scende giù, poi risale e segue le forme del corpo.

Agata non mangia da tutto l’inverno. L’ultimo sapore che ricorda è quello della pasta al ragù che Renata prepara ogni domenica. Lo sente sulla lingua, non più sul palato. Apre la bocca, tira fuori la lingua e le particelle di gusto si poggiano su quel minuscolo organo a forma di bottone. I ricordi stanno nell’aria. Nessuno la guarda eppure fa rumore. Scuote la coda, produce quel sibilo che ha imparato a tenere a bada. Non sempre ha la voglia di farsi sentire, a volte vuole stare in silenzio. Si raggomitola e forma una S arrotondata, la punta nascosta dietro l’addome piatto e liscio. Renata apparecchia la tavola. Prende posate, tovaglioli, bicchieri e piatti.

«Ma io non mi sazio solo con la zuppa, mamma!».

«C’è il pollo al forno di ieri, non lo vuoi?».

«Ma di nuovo? Non lo voglio ancora oggi!».

Il magma bollente scoppietta dentro lo stomaco di Agata.

«Ti faccio delle uova fritte?».

Leonardo sbuffa e apre il frigorifero. Cerca tra le salse sul retro dello sportello. Afferra maionese, senape, BBQ, ketchup.

«Mammmaaa, come sto?».

Arriva Brigida e indossa un vestito nero aderente che le mette in mostra le gambe sottili avvolte da un paio di calze a rete luccicanti. I capelli raccolti, il profumo nauseante.

«Ma come ti sei conciata? E quanto profumo ti sei spruzzata addosso?».

«E tu, piccolo deficiente, vuoi stare zitto che mangi come un maiale e solo cibo spazzatura?».

«Almeno io mangio roba diversa da vegetali e tisane depurative».

Renata tira una gomitata a Leonardo.

«Metti delle calze diverse». Renata aggiunge solo questo mentre soffrigge le uova nel burro.

Agata non riesce più a rimanere immobile. Scuote la punta affusolata. Sibila e vibra nell’aria. Ma nessuno se ne accorge. Sentirsi dimenticati. Quello che prova Agata non è niente di diverso: gli altri guardano il mondo e tu non esisti. Non sei nemmeno un oggetto da ammirare o giudicare. Non hai un peso, sei invisibile e leggera. Ecco perché scomparire è stato inutile. Già nessuno ti vedeva, figuriamoci più magra e leggera come un petalo essiccato. Bisognava cambiare forma. Sei nata in quella sbagliata. Non sei come gli altri.

«Ma così si vedono le gambe!».

Renata fissa le calze trasparenti della figlia.

Il liquido acido sale sempre più in alto. Raggiunge la metà del corpo e si ferma in gola, forma un bacino rovente che corrode. Entra dentro la bocca e si deposita sotto i denti. Fa male come un chiodo conficcato sotto il tallone. Renata mescola le uova e forma una frittata strapazzata. Mette sul piatto e le porta a tavola. Versa con il mestolo la zuppa, ancora fumante. Ricopre di parmigiano e olio. Iniziano a mangiare senza guardarsi in faccia. Agata li fissa, invece. Fissa la bocca di Leonardo, le labbra unte di olio e le briciole incastrate ai lati. Fa cadere pezzi di uova, raccoglie con le mani, strappa pezzi di pane e li intinge nelle salse.

Renata mangia composta e fa rumore. Vorace e senza sosta, sorseggia la zuppa dal cucchiaio. Soffia sul piatto, porta davanti alla bocca e produce un fischio per raffreddare la superficie ancora fumante. Il liquido sotto le gengive di Agata consuma lo strato sottile di pelle rosea e si annida in uno scrigno a forma di bozzolo pulsante. Non sa cosa fare, è la prima volta che succede. Seguire l’istinto. Non le resta che seguire l’istinto. Il sesto senso delle belve.

Una belva: ecco cosa è diventata. Si alza dal divano caldo che ha preso la forma ondeggiante del suo corpo. Silenziosa, senza sibilare striscia aderente al pavimento che sa di candeggina e brilla come la punta di un diamante. Serpeggia avvicinandosi alle gambe del tavolo, si inerpica fino in cima sfidando la forza di gravità della tovaglia che non si muove di un centimetro.

I due commensali continuano a grugnire. Il cellulare a trillare.

Nascosta sotto la tovaglia a quadretti rossi e bianchi fa un salto in avanti. Dritta verso il collo di Renata. Due pois rossi che si gonfiano mentre il cibo continua a scendere. Due palloncini velenosi pieni di saliva e cibo triturato.

Leonardo si alza dalla sedia e si stacca dal suo piatto di rimasugli.

«C’è una vipera!».

Mentre corre verso la porta della cucina Agata gli si attorciglia al piede e lo punge di quel liquido bollente di cui si è liberata. Urlano senza fermarsi. Respingono il veleno che Agata gli ha iniettato. Cadono a terra facendo rumore. I loro corpi sono pietre massicce che rotolano e urtano tra di loro. Massi che fanno rullare il terreno. Agata striscia leggera verso la porta, si nasconde dietro la ciotola del cane e guarda la scena. È arrivata Brigida. Anche lei osserva il quadro di sangue, cibo schiacciato, masticato e bava che sgorga dalle fauci. Urla e rimane pietrificata. Ma Agata non ha ancora finito la riserva di liquido velenoso.

Sara Noto Millefiori

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