Femminismo

Alle origini della violenza: lo stupro nei miti dell’antichità classica

Rivangando nel passato della civiltà occidentale, in particolare nell’antichità classica, si possono individuare le prime manifestazioni di una certa idea stereotipata del corpo femminile e della consequenziale definizione di ruoli di genere, che giustificano sfregi e violenze. Già il mondo greco ha elaborato miti e concezioni sulla dicotomia di genere. Poi ripresi dalla civiltà romana, che a sua volta li ha trasmessi alla cultura cristiana.

Miti e credenze dell’antichità greca

La Grecia è oggi riconosciuta come il luogo in cui sono nati il teatro e la filosofia. Si tratta anche di una civiltà che ha accettato la schiavitù e la subordinazione della donna all’uomo. Perciò il quadro è molto più complesso di quanto appare. Fu il filosofo greco Aristotele a identificare la donna con il corpo e la materia, in contrapposizione all’uomo spirito e forma. Si escludeva quindi la donna dal logos, il dominio della ragione. Dal momento in cui questa divisione venne teorizzata, cominciò ad essere vista non come fatto culturale, ma come una differenza biologica, tradotta in inferiorità delle donne.

Questo ha portato a conseguenze disastrose anche sulla concezione del loro corpo, ravvisabile nella miriade di miti trasmessi. Da questi viene fuori una singolare storia di violenza, abusi, omicidi, rapimenti ai danni di una folla di donne, ninfe, comuni mortali, amate, possedute, abbandonate e punite dai maschi.

Nei miti metamorfici gli uomini e gli dei per stuprare le fanciulle spesso si trasformano in animali. In questo modo le donne risultano possedute da tori, cigni, pantere, serpenti, aquile. Questa è la storia degli innumerevoli amori o meglio stupri seriali di Zeus, il quale per esempio si approccia sotto le spoglie di toro nel caso di Europa, di cigno nel caso di Leda, di pioggia d’oro nella vicenda di Danae. Conosciamo anche la storia di Erigone, figlia di Icario, stordita con il vino e posseduta con la violenza da Dioniso. O quella di Coronide, stuprata da Apollo mentre si bagnava nelle acque di un lago e fatta uccidere dallo stesso. Nota è anche la storia di Aura, ninfa veloce come il vento, determinata a restare vergine, ma vittima di Dioniso che desidera possederla. Per farlo mette in atto l’unico modo che conosce per riuscirci: stordirla, legarla mani e piedi a un albero e stuprarla.

Come tristemente accade ancora oggi alle vittime di violenza e stupri, il destino di queste vittime è non essere credute. Cassandra, anche lei vittima di Aiace durante la guerra di Troia e successivamente costretta a diventare la concubina del nemico, Agamennone, rappresenta l’emblema della donna a cui nessuno crede. Questo è anche il destino di Danae che paga in prima persona la violenza subita da Zeus, venendo rinchiusa dal padre e gettata in mare.

In tali miti, dunque, è sempre attivo un potere maschile opprimente e brutale. Il pensiero oggi non può non andare alle tante cronache giornalistiche, troppo inclini ad una narrazione tossica che non riesce a uscire dal paradigma della colpa. Le vittime del femminicidio sono descritte come colpevoli. Quando si scrive una notizia si tende paradossalmente a sottolineare più l’amore degli amanti che le hanno uccise, che la brutalità del gesto subito.                             

Miti e credenze dell’antichità romana

Si trovano numerosissimi esempi a sostegno di queste tesi anche nella cultura romana. Ovidio nelle sue Metamorfosi accoglie questi miti ereditati dalla classicità greca. Un mito nel dodicesimo libro mette in scena questa dicotomia di genere. Si tratta di quello di Nettuno/Poseidone, attratto dalla bellissima fanciulla Ceni, da lui stuprata. Quando Nettuno si dimostra disposto a darle in cambio qualsiasi cosa ella desideri, Ceni sceglie tristemente di non dover subire mai più una violenza simile e perciò chiede di essere trasformata in uomo. E Ceni infatti diventa Cenio, per poter superare questo destino. 

                                                                                                                            

Le donne fanno fatica a dimostrare di essere vittime innanzitutto perché sono belle. Si pensava e spesso si pensa tutt’ora che il corpo femminile lanci sempre dei messaggi e che per questo le donne debbano stare attente all’uso che fanno del loro corpo. Questo tipo di concezione è ravvisabile dai testi di autori come Seneca o Cicerone. In una controversia senecana troviamo, per esempio, un vademecum di quello che doveva essere una donna morigerata. Doveva uscire di casa stando attenta ad essere ornata quel tanto che bastava per non apparire trasandata, ma nemmeno insolente o maliziosa e per questo portando sempre gli occhi bassi.

Ci si appigliava e ci si appiglia ancora alla mancanza di reazione per accusare la donna. In un’altra controversia senecana, per esempio, una donna viene condannata dal padre perché quando dice di aver subìto violenza, le si rinfaccia di non aver emesso nemmeno un lamento e di aver taciuto. Qui si rinviene una contraddizione, perché tra i requisiti richiesti alla donna romana come elementi di pudicitia c’era proprio il silenzio. Non doveva parlare e non doveva far parlare di sé. Eppure c’era una circostanza, quella dello stuprum, in cui il silenzio della donna veniva equiparato a tacito consenso, non più considerato manifestazione di pudicitia, ma di mancanza di pudicitia.

Lo stesso tipo di logica inficia proprio il significato del termine stuprum, così come veniva inteso dai latini. Infatti il termine non aveva accezione sessuale, era l’equivalente di turpitudo, ovvero vergogna, ignomia. Per definire la valenza sessuale, il latino aggiungeva la notio di vis. Perciò lo stuprum perpetrato con la vis era invece quello della violenza, considerato come crimen unilaterale, con un agente e una vittima. Eppure nella realtà non era comunque così. Bisognava fare i conti con la cultura del sospetto, che considerava la donna caratterizzata da una particolare leggerezza d’animo, naturalmente propensa al piacere erotico. Perciò difficilmente si interpretavano gli atti di violenza quali stupri perpetrati con la vis. 

Questo substrato culturale ha avuto perciò nei secoli un’influenza importante sotto tutti i punti di vista, inficiando moltissimi campi. Oggi si riconosce, per esempio, il concetto di performatività del genere. Ci si aspetta sempre che gli individui debbano adempiere ad alcuni principi di genere che vengono attribuiti ai rispettivi sessi. Questo crea aspettative che non sono di per sé naturali, ma di natura sociale. Ci sono state anche importanti ripercussioni sul modo di intendere la sessualità. Anche in questo campo la donna è concepita come essere che deve subire. Aristotele sosteneva che la donna fosse un uomo mal riuscito solo perché ha gli organi sessuali retroflessi. Si perde così la concezione del piacere, a maggior ragione se si considerano i rapporti omosessuali femminili.                                                                                                                

Attualmente viviamo in un’epoca controversa, in cui il modo di intendere il corpo e la sessualità femminile è ancora stigmatizzato dalle sedimentazioni culturali del passato, nonostante oggi più di ieri la storia della sessualità sia al centro di molti dibattiti e cantiere di ricerca febbrile. Ripercorrerne la storia per capire da dove derivano comportamenti e intendimenti che noi consideriamo normali è il primo passo verso una sensibilizzazione maggiore per tentare di scardinarle e sottrarre loro la forza e l’influenza di cui hanno già goduto per troppo tempo.

Alessia Merra

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Alessia Merra

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