Attualità

Ancora sullo schwa

Ormai da diversi anni la questione dello schwa /ə/ raccoglie fautori e oppositori, tra gli addetti ai lavori e non. Ma cosa è esattamente lo schwa? E perché è utile valutarne l’utilizzo in contesti più o meno formali?

Origine linguistica dello schwa

Lo schwa /ə/ è un suono vocalico neutro, senza accento o tono, presente in diverse lingue del mondo, spesso in fine di parola. Si pronuncia tenendo rilassate tutte le componenti della bocca e aprendola leggermente: si può sentire il suono qui. Nel panoramica linguistico italiano è presente in diversi dialetti: ad esempio, quello napoletano o barese, nei quali ha una funzione grammaticalmente importante. Infatti, in questi dialetti le vocali finali di una parola si riducono a questo suono neutro e che, di conseguenza, impedisce di distinguere chiaramente maschile da femminile, o singolare da plurale. Questo fa sì che in alcuni casi la distinzione tra alcune parole sia riconoscibile solo grazie all’articolo che precede la parola: [rəˈvelə] «il velame» contro [uˈvelə] «il velo».

Proprio questa sua neutralità lo ha reso ideale per indicare qualcosa di non ben definito, e si è cominciato ad usarlo nella comunità LGBTQIA+ a scopo inclusivo, preferito rispetto a asterischi o chiocciole perché già presente nel sistema fonetico delle varietà dell’italiano.

L’uso nella rete

Sempre più sulla rete si vede l’utilizzo dello schwa da parte di content creators, influencers, ma anche fumettisti come Zerocalcare e scrittrici come Michela Murgia, che sposano l’idea di un linguaggio inclusivo. Eppure, ultimamente la dicitura di linguaggio inclusivo è stata accantonata a favore di linguaggio ampio, perché l’inclusività suggerisce di procedere per assorbimento di sottoinsiemi, categorizzandoli comunque come piccoli insiemi chiusi, invece l’ampiezza permette di allargare un cerchio entro il quale creare relazioni.

Sul web spesso esplodono molte critiche all’utilizzo di schwa o simili, perché non sarà il linguaggio a rendere la società più inclusiva. Questo è certamente vero, infatti la parola femminicidio non ha eliminato il fenomeno della violenza contro le donne, eppure ha permesso di aumentare la consapevolezza. La lingua, infatti, permette di far “vedere meglio”, di dare un nome alle cose e quindi di riconoscerle: il linguista Bruno Migliorini ha coniato il termine onomaturgo per indicare la capacità dell’essere umano di coniare termini nuovi e ha evidenziato quanto essa sia fondamentale nell’attività umana fin dai Greci, i quali credevano nell’esistenza di un’entità con poteri onomaturgici, come spiega Platone nel dialogo Cratilo.

L’uso in contesti formali

L’uso in contesti formali non è stato ancora riscontrato. Si può vedere però come la consapevolezza della necessità di un linguaggio ampio abbia portato a nuove iniziative. Proprio di pochi giorni fa è la notizia dell’Università di Trento che ha varato il Regolamento di Ateneo tutto al femminile, usando quindi il “femminile sovraesteso” per le cariche e i riferimenti di genere. Il rettore, Flavio Deflorian, ha dichiarato che questo è un “atto simbolico per dimostrare parità a partire dal linguaggio dei nostri documenti”.

Sebbene lontano dall’utilizzo dello schwa, la pratica si pone come esemplare (un’altra in tal senso è stata l’uscita del nuovo Vocabolario Treccani, di cui abbiamo parlato qui) per ribadire l’importanza di queste tematiche, a prescindere dai risvolti linguistici che, di certo, non distruggeranno la lingua italiana.

Gloria Fiorentini

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Gloria Fiorentini
Tags: inclusività

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