Dopo nove ore di viaggio, arrivai a Chicago. Agli arrivi dell’aeroporto O’Hare faceva caldissimo. L’aeroporto non era assolutamente come me lo aspettavo, scintillante e nuovo, ma un po’ trasandato e sporco. Avvertii gli amici e i genitori di essere arrivata a destinazione, dopo il lungo viaggio. Senza pensare troppo uscii e mi diressi verso il parcheggio dove ci sarebbe stato Lorenzo ad aspettarmi.
Dopo qualche giro del parcheggio, non trovando Lorenzo, tornai in aeroporto per usare il free wifi per chiamarlo e capire dove fosse. Lorenzo mi rispose dicendomi che era in ritardo perché non aveva trovato una macchina con cui venirmi a prendere, finché un suo collega non gliela aveva gentilmente prestata.
Stanca dal viaggio, ma troppo contenta per potermi riposare, richiamai un amico, che aveva provato a contattarmi quando ero in aereo, per raccontargli come fosse andato il viaggio e le mie prime impressioni dagli States. Non era la prima volta che visitavo gli Stati Uniti, ma era sicuramente un’occasione speciale, perché in quel caso stavo andando da Lorenzo che era lì, già da qualche mese.
Ho avuto sentimenti contrastanti nei confronti del Nord America; per anni ho pensato che non mi interessasse visitare quella parte del mondo, ma quando ho deciso di viaggiare oltreoceano per la prima volta, è stato amore a prima vista. Una terra scintillante, grande, grande, GRANDE, con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi. L’opinione delle persone si divide in merito agli Stati Uniti, non è un modo di vivere che può restarti indifferente. A me ha sempre affascianto la cultura americana: i dischi mainstream, l’arte avanguardista, la possibilità di vivere in metropoli o nella più recondita campagna dell’Indiana ed anche la loro convinzione di essere il miglior popolo del mondo.
Dopo un’oretta, Lorenzo arrivò in una Nissan beige sbiadita, senza dubbio era un’auto che il suo collega aveva comprato usata. Di certo un post-doc non poteva permettersi una Mustang nuova fiammante. Ci abbracciammo a lungo, nonostante il caldo e le ore di viaggio, poi salimmo in macchina e ci dirigemmo verso River North per cenare. Dopo aver parcheggiato, entrammo in un carinissimo pub molto affollato e frequentato da ragazzi giovani che bevevano birra e guardavano l’NBA. Ordinammo dei deliziosi nachos e due birre medie e ci sedemmo al bancone.
Sembrava quasi di essere in un film, eppure tutto era così naturale. I colori vividi, i giovani che parlavano animatamente tra loro e il volume alto della TV. Parlammo a lungo, seduti sugli sgabelli del pub. Era qualche mese che non ci vedevamo e ci eravamo mancati, anche se la distanza e il fuso orario ci avevano allontanati. Stavamo vivendo qualcosa di diverso ed eravamo estremamente felici di questa esperienza, perché non era una vacanza, ma un vero e proprio cambiamento.
Parlammo di come erano stati gli ultimi mesi, cosa avevamo fatto e cosa avevamo pensato. In quel momento eravamo solo contenti di vivere quell’esperienza e non pensavamo al futuro. Avevo voglia di scoprire tutto, di esplorare ogni angolo così diverso da tutte le città a cui ero abituata. Quella sera portavo dei jeans oversize, una camicetta colorata e vistosi orecchini, esaltati dai capelli raccolti con un semplice fermaglio. Lorenzo indossava dei bermuda, gli stessi di quando ci eravamo conosciuti per la prima volta tanti anni prima, e una camicia azzurra con collo alla coreana. Mi sentivo come se fossimo due ragazzi della Virginia che studiavano a Chicago.
I ragazzi nel pub erano tutti bellissimi, alti e muscolosi, un vero cliché; le ragazze erano tutte bionde e ben truccate ed indossavano vestitini dai colori sgargianti. Anche noi non stonavamo, eravamo abbronzati e sorridenti. Due ragazzi si sono avvicinati per ordinare una birra al bancone e hanno iniziato a fare due chiacchiere. I due “folks” non si aspettavano che fossimo italiani e ci hanno cominciato a fare tantissime domande.
Usciti dal locale ci siamo diretti verso Navy Pier. In macchina ho chiuso un po’ gli occhi, stanca del viaggio e scombussolata dal jet lag. Dopo aver parcheggiato la macchina Lorenzo mi ha svegliata e abbiamo cominciato a comminare in direzione del lago. Le luci, la musica e d’un tratto i fuochi d’artificio, mi hanno fatta sentire felice. Provavo quel sentimento di consapevole felicità, di quando si ha la testa libera dai pensieri e ci si gode solo il momento presente. Ci sono momenti in cui è facile essere felici, ed era esattamente quello che stavo vivendo.
Dopo aver esplorato quella parte di Chicago, dato che avevamo un po’ fame, ci siamo diretti alla ricerca di una pizza. Mano nella mano per le ampie strade del Chicago Loop, abbiamo trovato una pizzeria, davanti alla quale c’erano molte persone in fila. La loro “deep-dish pizza” era talmente famosa, che la lunga coda di persone in attesa, ci ha fatto desistere dall’ordinare e abbiamo deciso di dirigerci verso il primo “Seven Eleven” aperto. Dopo aver comprato dei biscotti e una coca cola, abbiamo continuato a camminare per la città. Procedevamo l’uno a fianco all’altra con il naso ricolto all’insù per ammirare tutte le novità.
Tutt’oggi non so perché in quel momento io fossi così felice, ma provavo una sensazione di leggerezza che poche altre volte avevo sperimentato. Forse stavo semplicemente vivendo un sogno, che neanche io sapevo di voler vivere; una libertà che non si sarebbe mai più riproposta. Quella serata non mi avrebbe mai stancato e tutt’ora, quando ci ripenso, posso vedere nuovamente il rosa delle luci al neon della pizzeria, i fuochi d’artificio sul molo e quei palazzi moderni e giganteschi che sembravano essere lì solo per abbellire la città e non per ospitare attività quotidiane. Più tardi siamo rientrati nell’appartamento di Lorenzo e, cercando di non svegliare il nostro compagno di stanza, ci siamo addormentati abbracciati in un letto troppo piccolo per starci in due.