La Striscia di Gaza è un lembo di terra lungo 40 chilometri e largo poco più di dieci. Una sottile striscia affacciata sul Mediterraneo, oggi sinonimo di conflitto e sofferenza, ma un tempo crocevia di commerci e civiltà. La sua vicenda storica, prima e dopo la nascita di Israele, spiega perché questo piccolo territorio sia diventato un punto nevralgico della politica mediorientale.
La storia di Gaza
Gaza è antichissima: fu città cananea, conquistata dagli egizi, poi passata di mano a imperi assiro, persiano, greco, romano e bizantino. Con l’espansione islamica del VII secolo, divenne un centro della Palestina araba. Per quattro secoli rimase parte dell’Impero ottomano, fino alla Prima guerra mondiale, quando l’esercito britannico ne prese il controllo.
Dal 1917 Gaza rientrò nel Mandato britannico sulla Palestina. In quegli anni aumentò l’immigrazione ebraica, sostenuta dal progetto sionista e dalla Dichiarazione Balfour. Gaza non fu tra le aree con i maggiori insediamenti ebraici, ma risentì della crescente tensione tra arabi e nuovi arrivati, che sfociò nelle rivolte palestinesi degli anni ’30.
Il vero spartiacque arrivò con la guerra del 1948. Dopo il ritiro britannico e la nascita di Israele, gli eserciti arabi attaccarono il nuovo Stato. L’Egitto occupò Gaza, che divenne rifugio per decine di migliaia di palestinesi espulsi o fuggiti dai villaggi circostanti. Nacque così la “Striscia di Gaza” come la conosciamo oggi: una terra minuscola e sovraffollata, amministrata militarmente dall’Egitto ma senza cittadinanza per i suoi abitanti.
Vent’anni più tardi, la Guerra dei Sei Giorni cambiò ancora le carte in tavola: Israele conquistò Gaza insieme alla Cisgiordania e ad altri territori arabi. Nella Striscia comparvero colonie israeliane, mentre la popolazione palestinese viveva sotto occupazione. Da Gaza partì nel 1987 la Prima Intifada, che si estese presto in tutta la Palestina.
Con gli accordi di Oslo degli anni ’90, Gaza passò formalmente sotto l’Autorità Palestinese, ma la pace rimase lontana. Nel 2005 Israele si ritirò unilateralmente, evacuando soldati e coloni. Un anno dopo, Hamas vinse le elezioni e nel 2007 prese il controllo del territorio, scatenando la rottura con Fatah e l’Autorità Palestinese rimasta in Cisgiordania.
Da allora Gaza è isolata: sotto blocco terrestre, marittimo e aereo da parte di Israele, con la collaborazione dell’Egitto. Ogni escalation con Israele si traduce in guerre lampo, vittime civili e distruzioni ripetute, mentre due milioni di persone vivono in condizioni critiche.
Gaza è passata dall’essere periferia imperiale a epicentro della questione palestinese. La sua storia, intrecciata con l’immigrazione ebraica del dopoguerra e la nascita di Israele, l’ha trasformata in un simbolo globale di conflitto e resistenza. Oggi, questo fazzoletto di terra continua a rappresentare una delle sfide più difficili e irrisolte della geopolitica internazionale.
La vita dei civili oggi

La vita quotidiana delle persone a Gaza oggigiorno è disumana, irriconoscibile, atroce. Le persone non hanno la possibilità di permettersi un pasto caldo, farsi una doccia, bere un caffè, guardare la televisione, dormire in un letto comodo, leggere un libro. Tutto ciò che per noi è ovvio, per loro non lo è più. Il cibo è scarso e costosissimo. Solamente i più privilegiati, quei pochi che magari ancora hanno un lavoro, possono permettersi di comprare un po’ di farina o qualche uovo. Le persone hanno fame e ne muoiono. Non si tratta solo una fame di cibo, ma di dignità, di normalità, di tranquillità. Le persone vivono in baraccopoli di fortuna e le loro giornate sono scandite dalla ricerca di acqua, di cibo, di carburante, di beni di prima necessità, di un senso a quello che di disastroso sta accadendo loro. Centinaia di migliaia di persone vivono in un contesto di povertà assoluta, non hanno più un lavoro, una carriera, un esercizio commerciale. In molti vivono con la consapevolezza che la loro casa è stata distrutta e che tutti i loro averi e i loro risparmi non esistono più, che tutti i sacrifici di una vita sono andati perduti. Non ci sono ristoranti, bar, negozi, posti dove le persone possano svagarsi e divertirsi. Per quanto riguarda le scuole, ci sono delle sporadiche classi di fortuna, dove i bambini più fortunati vanno a imparare le tabelline e la grammatica. La vita della gente è ora scandita dalla disperazione di aver perso tutto e dalla paura di morire da un momento all’altro.
Il crollo della sanità a Gaza

A Gaza ci sono circa 2 milioni di persone che sono costrette a risiedere nel 18% della striscia. Questa porzione di terra non è sicura, poiché soggetta a continui ordini di evacuazione e bombardamenti che spingono 400.000 persone in un giorno a spostarsi verso sud in 7-8 ore di code. Molti, stremati dalla fame e feriti dagli attacchi continui, non possono spostarsi e sono costretti a permanere in quel che resta di Gaza City. Da giugno 2025 la distribuzione degli aiuti umanitari non è più gestita da organizzazioni umanitarie indipendenti ma monopolizzata dalla Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta dal governo israeliano e fautrice di una vera e propria arma di distruzione di massa. La distribuzione degli aiuti avviene infatti in nove punti distinti dove le folle affamate sono umiliate nell’attesa dopo ore e ore di cammino a 40 gradi, costrette a correre prima della loro rapida chiusura e colpite da sparatorie continue che hanno registrato da giugno più 1.500 morti e 11.000 feriti. L’acqua è resa potabile da impianti di desalinizzazione funzionanti grazie al carburante che non scarseggia, ma i cui prezzi sono alle stelle e resi inaccessibili. Lo stato di carestia ufficialmente dichiarato non ha modificato la situazione devastante degli ospedali. I pazienti più gestiti presentano ferite da crollo, da arma da fuoco, da schegge e ustioni di secondo e terzo grado. Il personale sanitario vive all’interno degli ospedali stessi ed è stremato dalla fame, curando pazienti malnutriti a loro volta. Il tasso di occupazione degli ospedali a Gaza supera il 300 %. Le persone sono trattate all’esterno degli edifici e sui pavimenti tra i pochi letti disponibili. Mancano garze, antibiotici, sedativi, antidolorifici e fissatori esterni per le numerose fratture esposte. A Gaza chi non muore nell’immediato a causa degli attacchi israeliani, muore o di fame o di infezione. Abu Abed Mough Asib, coordinatore MSF a Gaza e operante ad Al Mawasi Health Center spiega ai microfoni di Medici Senza Frontiere come e quando un bambino smette di piangere. I bambini piangono tra le 6 e le 24 ore trascorse dopo l’ultimo “pasto”, quando i livelli di glucosio nel sangue cominciano a calare sensibilmente e si cominciano a consumare le scorte di glicogeno, esaurite in 1-3 giorni. A quel punto la chetogenesi comincia a consumare il tessuto adiposo. Nei 3-5 giorni successivi è la volta del consumo della massa muscolare, compresa quella cardiaca. É qui che un bambino smette di piangere. A Gaza non solo è possibile definire un bambino, ma è possibile delineare la fine di un bambino nel momento della cessazione del suo pianto, che è il suo respiro. Il personale di pulizia degli ospedali di Gaza è stremato quanto i medici e il personale infermieristico, poiché 24 ore su 24 è impegnato nella pulizia continua del sangue che impregna i corridoi, le sale operatorie e gli spazi antistanti le cliniche. Circa 5.500 pazienti da maggio ad agosto 2025 sono stati inseriti in programmi di nutrizione e di questi, circa 1.500 sono in dichiarato stato di malnutrizione. I kit igienici dedicati sono per la maggior parte bloccati in Giordania e in Egitto, non riuscendo a transitare nella striscia poiché i camion sono presi d’assalto da bande criminali che rivendono i prodotti a prezzi maggiorati o da persone disperate in una sorta di auto-distribuzione insufficiente. Le persone in media mangiano un pasto ogni 2 giorni. Molte madri devono scegliere quale figlio sfamare ogni giorno.
L’umanità é crollata con Gaza, la sanità gazawi già piegata prima dei fatti del 7 ottobre è ora al collasso.
Rapporti ONU
Se si naviga sul sito delle Nazioni unite, si può leggere che a Gaza è in atto un genocidio.
Secondo la Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (https://www.ohchr.org/en/press-releases/2025/09/israel-has-committed-genocide-gaza-strip-un-commission-finds), esso si identifica nell’ uccisione di membri di un gruppo, nelle lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, nel fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, nell’adozione di misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo e nel trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. Tutto questo con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Si conferma che il genocidio è un crimine di diritto internazionale, sia se commesso in tempo di pace, sia se commesso in tempo di guerra.
Il 16 settembre 2025, dopo 77 anni dalla Convenzione, il sito delle Nazioni Unite ha pubblicato un comunicato stampa in cui dichiara quanto concluso dal rapporto (https://docs.un.org/en/A/HRC/59/26) della Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele (https://docs.un.org/en/A/HRC/RES/S-30/1) : a partire dal 7 ottobre 2023, negli ultimi due anni le autorità israeliane e le forze di sicurezza hanno commesso quattro dei cinque atti genocidi definiti dalla Convenzione del 1948. In particolare, secondo il rapporto, le forze di sicurezza di Israele hanno ucciso palestinesi a Gaza con attacchi a case di civili, strutture sanitarie e rifugi, riducendo i palestinesi a condizioni di vita disumane, privandoli di cibo, acqua e medicine. I palestinesi risultano essere soggetti a torture, stupri e molestie, a trasferimenti forzati e impossibilitati ad accedere a cure mediche.
Ma chi è questa Commissione? È stata istituita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite il 27 maggio 2021, con una risoluzione per “indagare, nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est, e in Israele, su tutte le presunte violazioni del diritto internazionale umanitario e su tutte le presunte violazioni e abusi del diritto internazionale dei diritti umani verificatisi fino al 13 aprile 2021 e successivamente”.
Già il 13 marzo 2025 aveva pubblicato un rapporto (https://www.ohchr.org/sites/default/files/documents/hrbodies/hrcouncil/sessions-regular/session58/a-hrc-58-crp-6.pdf) sull’uso sistematico di violenza sessuale, riproduttiva e di genere da parte delle Forze di Sicurezza israeliane dal 7 ottobre 2023. Nel documento, la Commissione esamina la distruzione di Gaza da parte di Israele e la violenza sproporzionata contro donne e bambini, inclusi stupri e altre forme di violenza sessuale. Inoltre, riporta casi verificati di molestie sessuali e umiliazione pubblica delle donne palestinesi, riprese e fotografie di atti di violenza sessuale contro uomini e ragazzi durante l’arresto durante le operazioni sul terreno e durante la detenzione.
Un altro documento importante è stato presentato a marzo 2024 dalla relatrice speciale delle Nazioni Unite, Francesca Albanese: un report (https://www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1726067212_report-albanese-it-5-maggio-2024-final.pdf ) sulla situazione dei diritti umani in Palestina e in altri territori arabi occupati., intitolato Anatomia di un genocidio. Di seguito, si riporta parte del sommario:
In cinque mesi di operazioni militari, Israele ha distrutto Gaza. Oltre 30.000 Palestinesi sono stati uccisi, tra cui più di 13.000 bambini. Oltre 12.000 sono i morti presunti e 71.000 i feriti, molti dei quali con danni permanenti. Il 70% delle aree residenziali è stato distrutto. L’80% per cento della popolazione è stata sfollata con la forza. Migliaia di famiglie hanno perso i propri cari o sono state spazzate via. Molti non hanno potuto seppellire e piangere i loro parenti, costretti invece a lasciare i loro corpi in decomposizione nelle case, per strada o sotto le macerie. Migliaia sono stati detenuti e sistematicamente sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. L’incalcolabile trauma collettivo sarà vissuto per generazioni a venire.
Inoltre, il 30 giugno 2025 Albanese ha presentato al Consiglio ONU per i diritti umani il report From economy of occupation to economy of genocide: dalle armi alla logistica, una ricognizione del modo in cui si lucra sulle pratiche perpetrate da Israele (https://www.ohchr.org/sites/default/files/documents/hrbodies/hrcouncil/sessions-regular/session59/advance-version/a-hrc-59-23-aev.pdf). In esso, la relatrice conduce un’indagine sui meccanismi aziendali a sostegno del progetto coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei territori occupati. In particolare, prende in analisi il coinvolgimento nelle azioni di trasferimento e sostituzione della popolazione da parte di alcune aziende del settore militare, di produzione di strumenti di sorveglianza, di costruzione di macchinari pesanti, dell’edilizia, della gestione di risorse naturali, del settore agroalimentare, del settore di vendita al dettaglio e del settore turistico.
Comunque la pensiate, l’invito è di prendere visione di tutti questi documenti: informandosi, si scoprirà che a Gaza è in atto un genocidio.
La questione Femminista

Il femminismo è un movimento sociale e politico che lotta per la parità di diritti e opportunità di genere. Per il raggiungimento di questi obbiettivi centrale è l’intersezionalità, ovvero la consapevolezza che diverse identità sociali sono strettamente intrecciate tra loro: se dobbiamo lottare per la l’emancipazione del femminile, non possiamo ignorare il razzismo, l’omofobia, l’abilismo, il classismo, la transfobia e tutte quelle forme di discriminazione che, in modalità differenti, si intrecciano inevitabilmente con il genere.
L’intersezionalità all’interno del femminismo non è stato sempre un assunto di base, ma una conquista: se per decenni il femminismo storico è stato bianco e borghese, oggi non si può più permette di ignorare tutte quelle istanze che riguardano ogni minoranza sociale perché, con il tempo, si sono poste al centro la complessità e l’accoglienza di ogni rappresentazione. Ogni forma di oppressione deve essere smantellata: noi non saremo libere finché non saranno libere tutte.
Per parlare dell’interconnessione tra femminismo e questione palestinese non possiamo non citare il sionismo, movimento politico che mira alla creazione di uno stato ebraico in terra palestinese. La modalità con cui il sionismo agisce, come ormai è evidente, è attraverso l’eliminazione violenta e brutale del popolo e dell’identità palestinese, costantemente disumanizzata e razzializzata. La conquista dei territori, inoltre, passa inevitabilmente dalla distruzione dei corpi delle persone che quelle terre le abita e, come spesso accade in contesti di guerra, a pagarne caro prezzo sono le donne e i bambin*, assoggettati a meri oggetti di conquista. Come femministe non possiamo e non dobbiamo sostenere in alcun modo lo stato oppressore di Israele: se veramente vogliamo liberarci tutte dobbiamo definirci a gran voce antisioniste, dobbiamo lottare per un mondo equo e per la repressione di oppressione.
Insomma, non può esistere un mondo femminista senza la liberazione della Palestina.
Articolo a cura di: Graziana Minardo, Elisa Manfrin, Dominica Lucignano, Maura Catania, Ilaria Rusconi.