Lettrici e lettori di Michela Murgia avranno riconosciuto subito la frase Brava e pure mamma, titolo di un paragrafo del libro “Stai zitta”, in cui l’autrice fa riflettere sul sessismo celato dietro questo elogio. L’inganno della doppia personalità delle donne madri e in carriera descritte come supereroine non giova all’occupazione femminile, né alla maternità. Vediamo in questo articolo una recente notizia che sembra spingere in questa direzione, premettendo che scrivo da persona che non ha attualmente figli ma che ha sostenuto tanti esami.
Mamma e “abilitata”
La vicenda della candidata catanese che ha partorito il giorno dell’esame per l’accesso ai corsi di abilitazione per diventare insegnante di sostegno (percorso TFA) e che ha sostenuto la prova direttamente in ospedale, grazie a una commissione appositamente spostata dall’Università Kore di Enna, è stata salutata da molti come un gesto di grande sensibilità. Ma dietro l’apparente “fiaba a lieto fine” si nascondono nodi spinosi. L’urgenza con cui l’ateneo ha mobilitato rettore, personale sanitario e commissione – trasformando una sala del reparto di ginecologia in aula d’esame – solleva interrogativi sul confine tra disponibilità e spettacolarizzazione.
In un contesto in cui la maternità dovrebbe essere tutelata con norme e percorsi chiari, la soluzione d’emergenza rischia di diventare un precedente ambiguo: sembra suggerire che l’unico modo per conciliare diritti e carriera sia affidarsi all’eccezione, non alla regola. L’episodio, pur narrato come emblema di parità, pare invece rimarcare quanto il sistema continui a poggiare su decisioni straordinarie e discrezionali, lasciando le madri lavoratrici in una condizione di costante precarietà. Senza pensare poi alla donna stessa: com’è possibile che nessuno abbia pensato che sostenere un esame (ricordiamo tutti le ansie, le preoccupazioni, la necessità di concentrazione che un esame richiede) e partorire (un evento eccezionale ma debilitante mentalmente e fisicamente) non potesse essere la soluzione più consona?
Allargando il discorso, c’è poi un tema di equità: mentre a una candidata viene offerta una sorta di corsia preferenziale, altre persone – magari frenate da malattie, lutti o impegni familiari – non ricevono lo stesso trattamento. Anche se forse è meglio così, altrimenti a qualcuno potrebbe venire in mente di fare un esame durante una funzione funebre.
La parità non può ridursi a un atto eroico calato dall’alto, ma deve tradursi in procedure strutturate, accessibili a chiunque si trovi in situazioni analoghe. Altrimenti si alimenta la retorica della donna forte a tutti i costi, capace di superare prove estreme pur di non perdere un treno professionale. Invece di applaudire all’eccezione, dovremmo chiederci perché una futura madre debba scegliere tra il diritto a partorire in serenità e quello a non rinunciare alla prova di esame per poter conseguire poi un titolo di studio. L’università ha dimostrato certamente flessibilità, ma l’episodio mette in luce un sistema che, più che promuovere vera uguaglianza, continua a delegare alla buona volontà dei singoli la tutela di diritti che dovrebbero essere garantiti per legge e non per fortuna.
Leggi a tutela della maternità
L’ordinamento italiano prevede già strumenti pensati per evitare che la maternità diventi un ostacolo alla carriera, e proprio questo rende il caso di Catania ancora più incredibile (nel senso letterale: è davvero possibile che sia accaduta una cosa del genere?). Il Testo Unico sulla maternità e paternità (d.lgs. 151/2001) riconosce alle lavoratrici e alle studentesse universitarie il diritto a sospensioni e proroghe in caso di gravidanza o parto, mentre la legge 240/2010 sull’università e la normativa sui concorsi pubblici contemplano possibilità di rinvio per motivi di salute documentati. Si tratta di tutele ordinarie, non di favori straordinari, pensate per garantire pari opportunità senza costringere le donne a performance eccezionali. Eppure, nella prassi, questi strumenti vengono applicati in modo disomogeneo: spesso i bandi non chiariscono con sufficiente trasparenza i tempi e le modalità di rinvio, lasciando ampio margine di discrezionalità alle singole amministrazioni.
Così, invece di attivare un percorso previsto dalla legge – ad esempio il semplice rinvio dell’esame – si preferisce ricorrere a una soluzione spettacolare e mediatica. È un segnale preoccupante: quando la parità di genere viene affidata a interventi ad hoc, si svuota di significato la cornice normativa costruita in anni di battaglie sociali.
Il racconto nei social
I social media non si sono certo distinti nella narrazione di questo episodio: nessuno denuncia l’episodio come un esempio da non seguire, né nei titoli né nel corpo dell’articolo.
Alcuni esempi, come il giornale La Sicilia su Facebook:

Sicilianewsofficial su Instagram:

O ancora titoli acchiappaclick come “L’esame si fa in corsia: la candidata partorisce subito dopo la prova”.
Una piccola speranza arriva dai commenti ai post, da utenti che si dicono per la maggior indignati dalla situazione. Questa storia, oltre a far riflettere sulla disuguaglianza nel trattamento della candidata, che avrebbe meritato di non sostenere l’esame quel giorno, potrebbe aprire una discussione sul trattamento riservato a tutte e tutti coloro che vogliono lavorare nel mondo della scuola. Ad alcuni anni dalla vicenda della collega di matematica che era stata nominata in una scuola e andò a firmare in abito da sposa, pochi sembrano i passi in avanti.