Femminismo

Il problema senza nome da ‘La donna gelata’ a ‘King Kong Theory’, parte 2: femminilità e donna-oggetto

In Dalla parte delle bambine (1973), Elena Gianini Belotti osserva come le bambine vivano una tensione continua per manifestare, come da insegnamento, la propria ‘femminilità’ e come mettano in pratica una ‘feroce autodisciplina’ volte alla ricerca dell’approvazione. Belotti descrive come le bambine sembrino apparentemente predisposte alla ‘prostituzione del sorriso non sentito’: a come, in pratica, sorridano per ottenere in risposta un altro sorriso. Descrive come sembra che l’atteggiamento più adottato fra le bambine per ottenere qualcosa sia quello civettuolo, seduttivo, in risposta a un insegnamento che le incoraggia a praticare tali comportamenti per essere valorizzate; come siano costantemente alla ricerca di compiacere l’autorità, di ottenere una lode, di corrispondere alle aspettative, e per questo esercitano un comportamento docile e servizievole. Descrive, infine, come già da bambine le femmine non vengano viste ‘come individui, ma come oggetti sessuali che stuzzicano le voglie dei maschi’.

È già in questi anni che viene messo in chiaro cos’è ‘femminile’ e cosa no, cosa significa ‘femminilità’ e cosa no. Alla femminilità corrispondono, fra le altre cose, la dolcezza, la malleabilità, la cortesia, l’attenzione, il silenzio, la comprensione, l’educazione, la malizia, la seduzione. Le bambine vengono sottoposte a una pressione costante per appropriarsi di questi tratti comportamentali e rispettarli, mettendo da parte le loro naturali inclinazioni caratteriali pur di poter soddisfare questi requisiti e apparire, quindi, femminili. Fin da bambine, in pratica, ci viene insegnato che c’è un modo preciso per vivere a pieno la propria femminilità e diventare una ‘vera donna’.

Ne La donna gelata di Annie Ernaux, la protagonista, alla soglia dell’adolescenza, inizia ad intuire come arrivare ad essere ‘scelta’:

Con quanta prevedibilità, quanto impegno mi applico per ricreare tutti i segni esteriori della vera femminilità, quella che ammalia. Quanta perseveranza per entrare a far parte anch’io, a quattordici anni, del mondo delle ragazze. Ma quelle calze, quella gonna a tubino, quelle scarpe col tacco nelle mie intenzioni non servono a trasformarmi in un oggetto sessuale, bensì a rendermi felice, di quella felicità che viene dall’essere scelta

Tutto nell’educazione femminile, da quando si è bambine fino a quando si diventa donne, insegna a dover ottenere un’approvazione, a ottenere una validazione altrui. L’approvazione maschile, in particolare; dell’autorità, anche, che è costantemente associata al maschile. Un’autorità onnipresente che decide tutto: quanto una donna è femminile, cosa va bene in lei e cosa no, quali comportamenti deve seguire. Un’autorità perpetua alla quale si deve rispondere, pena l’emarginazione, la discriminazione. Essere tutto, ma non troppo, con discrezione, raffinatezza. Un’autorità che decide chi ha il diritto di esistere, come dice Despentes in King Kong Theory:

Come donna è lo stesso discorso: non mi vergogno minimamente di non essere una super gnocca. In compenso che, siccome agli uomini non interesso granché, si cerchi continuamente di suggerirmi che non dovrei nemmeno esistere, mi fa andare in bestia.

La protagonista di Ernaux ne La donna gelata si rende conto che essere scelta, apparire in un certo modo allo sguardo maschile (bella, seducente, interessante) è una priorità. Essere attraenti (agli occhi degli uomini) è necessario, l’intelligenza non basta e nemmeno il carattere, che pure si deve adeguare. Mette in atto una trasformazione: inizia a prestare attenzione a cosa indossa, quali sono i difetti da evitare e come nasconderli, come ‘valorizzare’ le diverse parti del suo corpo. Nel frattempo, inizia a fare pratica per la sua futura vita da casalinga e madre: fa pratica in cucina, stira, lava, rifà i letti. C’è un ideale da rispettare, e solo così si può realizzare l’unico vero desiderio di una donna: essere guardate, apprezzate, amate; consapevoli che il proprio corpo è il mezzo principale attraverso cui raggiungere l’agognata approvazione maschile.

Un corpo sempre sotto sorveglianza, alla berlina, brutalmente sezionato, gli occhi, la pelle, i capelli, di cui occuparsi un pezzo alla volta per adeguarlo a un ideale di perfezione.

Femminilità ideali

Despentes riporta il caso di una donna preso in esame da Joan Riviere ne La femminilità come travestimento: il caso di una donna che, parlando in pubblico, aveva la tendenza a esprimersi in modo ‘compulsivamente’ civettuolo. Secondo Riviere, questo comportamento era dovuto al fatto che mettere in mostra le sue capacità intellettuali significava ‘un’esibizione del suo possesso del pene del padre, ottenuto dopo averlo castrato’ e che, per paura di una possibile punizione, ella gli si ‘offrisse sessualmente’ per poter ottenere la sua approvazione. Un’interpretazione psicanalitica, secondo Despentes, del perché fin dall’età più giovane le ragazze accettino di ‘proporsi’ come la donna-oggetto. Di ‘portare abiti scomodi e scarpe che ti impediscono di camminare, farsi sfasciare il naso, gonfiare i seni, affamarsi’: ovvero rassicurare gli uomini che, al di là dell’intelligenza e dell’indipendenza, il vero obiettivo di una donna rimane quello di piacergli.

Le donne si sminuiscono da sole, dissimulano quanto hanno appena conquistato, adottano una postura di seduttrici, ripristinano il loro ruolo, in modo tanto più ostentato in quanto sanno che, sostanzialmente, ormai non è che un simulacro. L’accesso a poteri tradizionalmente maschili implica la paura della punizione. Uscire dalla gabbia ha sempre comportato sanzioni brutali.

‘Manifestare’ visibilmente la propria femminilità (così come socialmente intesa, attraverso determinati vestiti o atteggiamenti) non viene sempre in aiuto alle donne che intendono occupare posizioni di potere. Nella maggior parte dei casi, c’è il rischio di non venire prese sul serio oppure di non essere altro che una ‘distrazione’ che non lascia fare ai potenti il proprio lavoro. Quando una donna sale al potere entra in un contesto prettamente maschile in cui c’è da fare ‘il maschio fra i maschi’ per poter almeno ambire ad essere considerata degna di quella posizione. Le sue capacità (intellettuali, lavorative e quant’altro) verranno minuziosamente analizzate al pari del suo corpo. Ed è proprio qui che si denota la pressione a cui una donna viene sottoposta in una società che la vuole ‘femminile’ nella vita di tutti i giorni (bella, seducente e quant’altro), ma ‘con le palle’ in ambito lavorativo. Quello che sembra dover fare una donna, in pratica, non è tanto esaltare la propria femminilità, quanto più che altro essere e saper fare tutto ma con moderazione, adattandosi a ogni realtà (sempre maschile), accettando che comunque questo possa non bastare.

Il monologo diventato famoso negli ultimi anni della ‘cool girl’ nel romanzo di Gillian Flynn Gone Girl (2012) è abbastanza attinente per poter capire il grado fino a cui le donne possano sentirsi costrette ad adattarsi al desiderio maschile, soprattutto in ambito relazionale. La protagonista parla di una ‘cool girl’, una donna a cui piace tutto quello che piace al suo interesse romantico maschile, che la trova ‘cool’ proprio perché ha tutti i suoi interessi. Questa donna non è problematica e viene complimentata perché ‘diversa’, ovvero non ‘isterica’ come le altre donne ma anzi sciolta, alla mano e mai ‘pesante’; ed è naturalmente bellissima e in forma di natura, senza essere ossessionata da creme e trucchi. La ‘cool girl’, come racconta la protagonista, non esiste: è una finzione adeguata al tipo di uomo con cui si ha a che fare e a seconda dei suoi interessi. Non è, quindi, questione di apparire ‘femminile’ in tutti i modi. La questione è adeguarsi alla continua richiesta di essere così come gli uomini vogliano che le donne siano, a discapito della personalità individuale; sebbene la figura creata non sia altro che, come dice Despentes, un simulacro.

Si potrebbe contestare che Gone Girl non sia altro che un romanzo. In effetti, qui l’intenzione non è di dare per assodato che ogni donna si faccia ‘cool girl’ per poter ottenere l’approvazione maschile. Tuttavia, ridimensionarsi, adattarsi agli altri e, spesso, perdersi, è qualcosa di molto reale per ogni donna in qualunque ambito. E a proposito di ‘cool girl’ e donne ideali:

Perché l’ideale della donna bianca, seducente ma non t*oia, sposata bene ma non spenta, che lavora senza fare troppa carriera per non mortificare il suo uomo, snella ma non maniaca delle diete, che rimane indefinitamente giovane senza farsi sfigurare dalla chirurgia estetica, mamma realizzata ma non ostaggio di pannolini e compiti a casa, buona padrona di casa ma non la classica sguattera, colta ma meno di un uomo, questa donna bianca e felice che ci sventolano continuamente sotto il naso, quella a cui dovremmo fare lo sforzo di assomigliare, a parte che ha l’aria di farsi due palle così per poco o niente, poi io non l’ho mai incontrata, da nessuna parte. Mi sa tanto che non esiste.

Problematiche

Se si tratta quindi di adeguarsi allo sguardo maschile, qualunque siano le sue preferenze, che fine fa la femminilità? Aderire a un ideale di femminilità significa necessariamente porsi come donna-oggetto? L’oggettificazione può esistere senza femminilità? E il problema senza nome?

Queste sono mere riflessioni. Diamo per preso che la femminilità è una costruzione sociale: le caratteristiche che le si attribuiscono sono determinate socialmente e non per natura, e sono principalmente estetiche nel contesto di cui parliamo. Si potrebbe, tecnicamente, decidere di aderirvi o meno. Ognuno ha il diritto di confarsi alla visione di sé che preferisce. Questa considerazione, tuttavia, potrebbe essere quanto meno semplificatoria, per due principali motivi. Primo: voler essere femminili può non essere una volontà coscientemente maturata, ma il frutto di un’educazione volto a diventarlo. Dopotutto, apparire femminili sembra essere il modo più socialmente accettato per una donna di essere apprezzata e validata in quanto donna. Questo, sempre perché ci viene insegnato fin da bambine che l’approvazione, difficile da ottenere per una donna in particolare, è l’obiettivo maggiore a cui aspirare. Secondo: per ogni donna, cis e trans, esiste una pressione notevole nel presentarsi come ‘femminili’, in quanto modo più visivamente d’impatto per affermare l’appartenenza al genere e non cadere in discriminazioni. Ciò significa che potrebbe essere sentito come necessario per poter essere riconosciute come donne, ai propri occhi e a quelli altrui.

L’oggettificazione è purtroppo collegata alla femminilità così come viene concepita, ma qui il gioco sta tutto nella disparità fra l’intenzione e la percezione: se la nostra intenzione è quella di riappropriarci del concetto di femminilità e adeguarlo ai nostri gusti personali, non vi è modo di impedire che lo sguardo maschile percepisca quell’atto di rivendicazione come un modo per suscitare il suo interesse. Quindi no, ovviamente, aderire a un ideale di femminilità non significa porsi come donna-oggetto; non importa quanto il resto della società cerchi senza sosta di incasellare una bella donna nel prototipo del desiderio maschile. D’altra parte, l’oggettificazione potrebbe comunque avvenire senza necessariamente adeguarsi a tutti i dogmi della femminilità che ci vengono promulgati continuamente, soprattutto dai media. Se intendiamo l’oggettificazione come non interamente parte di una dimensione sessuale, essere percepite come un pacchetto confezionato a misura dell’interessato (vedi il caso della ‘cool girl’) è comunque una realtà. L’oggettificazione c’è perché c’è lo sguardo pronto a identificarlo come tale.

L’approvazione maschile (o della società, costruita da e per gli uomini) non è una ricerca universale che coinvolge tutte le donne, sia per una questione di orientamento sessuale, sia per per la capacità che ogni donna, soprattutto da adulta, ha di realizzare quanto questo desiderio possa essere frutto di un’educazione che si può smontare, rendendosi capaci di realizzare, più che la propria femminilità, il proprio stile personale, fuori da un contesto di ricerca di accettazione ma di piena rivendicazione di essere quello che si vuole e di presentarci così come siamo; anche abbandonando in toto il concetto di femminilità così come ci viene proposto per crearne uno nostro che vi abbia tutto o niente a che fare.

Il problema è la relazione che le donne sono costrette ad avere con gli ideali a cui, secondo la società, dovrebbero ambire. Specialmente quando quell’ideale non ha niente a che fare con gli interessi o gli obiettivi individuali. E si torna, così, al problema senza nome. La casalinga e madre perfetta di cui parla Betty Friedan mantiene la propria femminilità e la concilia con le faccende domestiche, e anzi il primo passo per diventare questa donna è proprio quello di rientrare nei canoni della femminilità per poi di ‘realizzarla a pieno’ con marito, casa e figli. Ma al pari della ‘cool girl’ di Flynn e della donna di cui parla Despentes è una donna fittizia; o che, quanto meno, si conforma a un ideale talmente lontano dalla realtà che, alla fine, il problema senza nome ha terreno fertile per prendere il sopravvento.

Parte 1: https://violedimarzo.com/2022/02/25/il-problema-senza-nome-da-la-donna-gelata-a-king-kong-theory-parte-1-maternita-e-critica-sociale/

Daniela Carrelli

violedimarzo

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