Ti sto perdendo di nuovo, come venti anni fa, ma questa volta per sempre.

Eravamo in un parco acquatico, la prima volta che ti ho persa. Uno di quelli circondati dal nulla, solo acqua dentro, acqua azzurra e brillante, acqua calda e sporca, acqua che ristagna, che scola giù dalle grate bianche e rimane imprigionata in un tombino buio e ammuffito. Il caldo faceva sembrare il paesaggio intorno come dentro un’allucinazione. C’era una fila di case con i tetti arancioni, basse e invecchiate dal tempo, le finestre dai vetri rotti si affacciavano sulla distesa di piscine. Le guardavano malinconiche e ascoltavano l’eco della musica che proveniva da lontano.

Io e te ballavamo davanti alla piscina più grande, sulle note di una canzone pop, muovevamo i nostri bikini glitterati a destra e sinistra e il tuo copricostume trillava ogni volta che giravi su te stessa. Una ballerina di un carillon rimodernato e impazzito. Era la nostra prima uscita da sole. Due bambine emozionate in mezzo a un gruppo di ragazzi in gita. Avevamo stretto amicizia con due ragazzine più grandi di noi e Suor Tina ci aveva detto che assomigliavamo alle Superchicche. Ti immaginavo il personaggio di un cartone animato. Una chioma riccia sulla testa e un vestitino stretto giallo, il tuo colore preferito.

Ti piaceva farti inseguire, tuffarti e urlare non hai il coraggio di farlo anche tu. Suor Tina ti rimproverava e ti diceva di fermarti, per una buona volta, non ti scarichi mai?

Mi ero abituata a correrti dietro, a riprendere fiato dopo aver provato ad acciuffarti, ma tu eri sempre più veloce. E poi, senza rendermene conto, avevo girato la testa e ti avevo persa nel bel mezzo della folla.  

Avevo iniziato a sudare freddo e a muovermi senza una meta a destra e sinistra, girando come una trottola sballottata dalle spinte della gente, frastornata da un vocio penetrante. Ti avevo cercata tra i volti delle bambine con la tua stessa altezza, con i tuoi stessi capelli, con il tuo stesso costume. Mi ero illusa che fosse uno dei tuoi soliti scherzi da bambina. Invece, io continuavo a cercare e non sentivo la tua voce, non sbucavi da dietro e non mi tamburellavi sulla spalla urlandomi Ehi, non mi vedi, sono qui!

Ero rimasta sola in mezzo alla gente che faceva la fila per andare sugli scivoli, mentre tu ti perdevi chissà dove o venivi afferrata, portata via, presa con subdola violenza e allontanata da me. Volevo avere un megafono, di quelli enormi e gialli, per urlare il tuo nome e farlo rimbombare dappertutto, ma la voce era rimasta intrappolata e non riuscivo a parlare.

La luce del sole stava salutando le vecchie case sullo sfondo quando ti ho trovata. Eri seduta sul bordo di una piscina ormai vuota e l’acqua ti sfiorava le caviglie, bianche e così sottili. Suor Tina ti stava raccontando qualcosa per farti smettere di piangere, non ti avevo mai vista piangere, e mangiavi un biscotto gelato che si stava sbriciolando sul tuo costume con i brillantini. Ti sono corsa incontro e ti ho abbracciata con timore, avevo paura di spezzarti e di farti del male. Facevi odore di panna e cioccolato e mi eri mancata tanto.

Sono passati vent’anni da quel giorno quando ti ho quasi persa. Hai sempre gli stessi capelli, ancora più lunghi e ricci, sei più alta di me e con i tacchi devo sollevarmi in punta di piedi per abbracciarti.

Hai avuto un fidanzato, una laurea, una nuova casa e nuovi amici. Ma ti sto perdendo, anche questa volta. Il tuo viso è diventato smunto, la tua bocca non sorride più, ti vedo appannata, come dentro una bolla di sapone sporco e pieno di fango.

Le punte dei capelli non disegnano più una molla, come facevano prima. Si spezzano tra le mani, cadono per terra, sono radici secche che si staccano da sole. Mi dici che hai bisogno di due maglioni per riscaldarti, senti sempre freddo. In primavera indossi vestiti invernali, d’inverno stai dentro la tua camera e non esci mai.

Quando non siamo insieme mi chiami, mi chiedi come sto, io ti racconto un po’ di me. Poi mi dici che non vuoi parlare, perché per me sarebbe un peso troppo grande. Un peso che non saprei reggere. Io ci provo, cerco di convincerti, ti dico di no, che sono forte e ti posso aiutare. Tu dopo un po’ ci riesci e ti metti a piangere. Sei così lontana. Le lacrime attraversano lo schermo del cellulare e mi bagnano la guancia. Poi mi accorgo che sono le mie. Io e te abbiamo le stesse lacrime anche se non ci possiamo toccare.

Aspetto una tua chiamata ogni mattina, tengo il cellulare sempre acceso e con la suoneria. Voglio esserci sempre anche a distanza.

Ci incontriamo di nuovo a Natale, ci abbracciamo accanto all’abete che hanno addobbato i nostri genitori, dicono che adesso la casa è più piena e che le palline o le luci colorate non servono a niente se manchiamo noi. Sorrido e ti guardo, ma non vedo però quella luce che vedono loro. La casa è diversa, è avvolta in una patina di polvere chiara e impercettibile. Un velo di zucchero sottile che fatica a staccarsi e non addolcisce più, è incollato come colla vinilica. Ci provo a staccarlo, faccio il possibile, ma mi sento immobile. Ho paura di girarmi d’un tratto e di non vederti più, di perderti tra gli sguardi delle altre persone, di provare la stessa sensazione di vent’anni fa.

Non c’è acqua, non ci sono le case in lontananza che ci guardano tristi. C’è casa nostra, ci sono i nostri vecchi giocattoli, le nostre bambole, le tue costruzioni, i nostri libri illustrati, i pupazzi di dinosauri. Anche loro ci guardano malinconici, si stringono insieme in cerchio, come spettatori meravigliati. Vogliono vederci di più nella nostra casa di infanzia e ti rivogliono come prima.

Io, intanto, ti tengo attaccata a me. Non mi scappi via.

Sara Noto Millefiori

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Sara Noto Millefiori

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