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Pacco regalo

T. non amava ricevere regali. Considerava quel gesto come un’invadente intromissione nella vita di qualcun altro. Di solito quelli che riceveva li teneva sul mobile della camera da letto per qualche giorno, li guardava prima di andare a dormire e se non le ricordavano troppo la persona che li aveva impacchetti, allora forse potevano occupare un angolino della casa. Altrimenti, la cantina.

Una domenica di metà dicembre, però, si trovò davanti la porta di casa una scatola senza mittente. Il suono del citofono la mise subito in allarme. Non aspettava nessuno di domenica, mai. Aprì la porta di casa e vide un pacco regalo con un fiocco rosso sullo zerbino.

Si guardò intorno. La strada, la casa della vicina, il giardino di fianco. Tutto vuoto. Dormivano tutti, immaginò. Così allungò il piede e sfiorò quel contenitore a forma di cubo. Non scoppiò e nemmeno fece rumore. Sembrava contenere aria, almeno così pensò lei. Aria dentro una scatola, che bel regalo originale. Si chinò e lo prese in braccio. Era leggero, e veramente sembrava contenere aria. Cercò il nome del mittente o qualche indirizzo, un bigliettino, una scritta, un pensiero di auguri. Niente nomi e nessuna parola, solo un involucro di cartone color cammello e quel fiocco rosso e luccicante che strideva con la carta ruvida del pacco. Non ha avuto buon gusto, pensò.

Lo sollevò, lo portò al petto, su e giù, su e giù. Non conteneva nulla, ne era sicura. Doveva essere uno scherzo di qualche vicino, oppure una trovata pubblicitaria di un agente immobiliare. Non sarebbe successo nulla se avesse deciso di portarlo dentro e così si richiuse la porta alle spalle e si diresse in cucina.

Lo poggiò sul tavolo di legno e prese un taglia carte. Non sapeva dove infilare la lama perché la superficie sembrava non avere interruzioni. Era un unico pezzo che si ripiegava in una forma tridimensionale. Allora prese il coltellino e lo infilzò al centro, senza preoccuparsi di rompere il contenuto. Tanto dentro doveva essere vuoto. La lama percorse la superficie disegnando un cerchio irregolare, a tratti si inceppava, come se trovasse un ostacolo. Poi continuava e scorreva lenta dentro il cartone ruvido. Alla fine, però, riuscì ad aprirla. T. posò l’attrezzo sul tavolo. Dalla voragine con il bordo a zig-zag uscì fuori un profumo che T. conosceva, e poi un suono.

Carta che si stropiccia, una foglia secca pestata per strada, le ali di un’ape morta per terra che si disintegrano al sole.

Il profumo, quel profumo. T. infilò la testa dentro la voragine, tentennando, insicura. Aveva il timore che ne uscisse fuori un clown con la molla, o qualche altra diavoleria. Era uno scherzo, d’altronde. Ma niente. Infilò la testa ancora più in profondità, così in fondo che pensò che quella scatola fosse infinita. Ma quello che vide fu il fondo della scatola, marrone scuro, senza nient’altro. Poi sentì freddo e il naso le diventò subito congelato, e tirò via la testa.

Che scherzo è questo, pensò T., con il naso congelato e rosso. Iniziò a soffiarlo e ogni soffio riscaldava la pelle e buttava via quel profumo che usciva dalla scatola. Di cosa sapeva? Di liquirizia? Zucchero bruciato? Posò la scatola sul tavolo e iniziò a girare attorno al tavolo. A ogni giro cercava di capire cosa stesse succedendo. Qualcosa dal fondo della scatola emergeva silenzioso e invisibile e se non era uno scherzo, cos’altro poteva essere?

In quel momento si avvicinò alla finestra del salotto, si affacciò lentamente spostando le tende ingiallite dal sole. Doveva esserci qualcuno che la spiava, che controllava la sua reazione, chi fa uno scherzo senza guardare quello che succede dopo?

Ma la strada era deserta. Nessuna macchina parcheggiata, nessuna persona di passaggio. Si girò di scatto e vide quella scatola sul tavolo, che chiedeva di farsi guardare. Nell’aria iniziò a diffondersi più forte l’odore zuccherino di miele rimasto incollato al fondo del barattolo, di caramelle appiccicate tra di loro per il troppo caldo, di zollette di zucchero che non si staccano dalla confezione. L’odore entrava dentro le narici di T, e T. lo accoglieva, lo metabolizzava e poi lo gettava via, come una spina che viene espulsa dalla pelle, dopo essersi conficcata. Ma quello era il suo odore, e nessun altro poteva conoscerlo. Così, riprese la scatola e la girò dall’altro lato. La voragine aperta venne coperta dal legno del tavolo, così che T. potesse capire se davvero quel profumo provenisse da lì.

E l’odore di zucchero subito di fermò, ma ricominciò di nuovo lo stesso suono di prima. Carte stropicciate, sgualcite, nastrini che si stringono e si spiegazzano. T. iniziò a vedere delle scene proiettarsi nella cucina.

Un pacco regalo in costruzione, prima sfocato, poi lento prendeva colore. Verde con le stelle di Natale in miniatura stampate sopra. Nastrini che si avvolgevano, che si stringevano strozzandosi in un fiocco ben fermo. Non era bello, era funzionale.  Anche a Natale ogni cosa doveva svolgere bene il proprio scopo, al meglio delle sue possibilità. Così sussurrava una voce dentro la testa di T, o dentro la sua cucina, in quel momento, quella domenica mattina. A poco a poco il pacco si componeva, e si iniziava a sentire più forte il rumore di nastrini che si spiegazzano, di bigliettini di auguri infilati dentro le buste e incollati sulla carta regalo verde. Non era una bella confezione, aveva i bordi mal ripiegati e il nastrino era storto.

Nel frattempo, attorno alla scatola si materializzavano altre figure. Un piatto di pasta al sugo sporco, lasciato sul tavolo, dei tozzi di pane, una confezione di zuccherini di tanti colori.

T. strizzò gli occhi, vedeva ancora sfocato. Uno strofinaccio macchiato avvolgeva una teglia piena di biscotti bruciati. Questi non li puoi mangiare Teresa, sono bruciati. Di chi era la voce che dal nulla echeggiava in quella stanza dalle pareti alte e con una scatola misteriosa sul tavolo? Era una voce simile a quelle che escono fuori dai megafoni, voce di altri tempi, di momenti passati e volati via.

T. provò a tapparsi le orecchie ma la voce era più forte e rimbombava ovunque. Scosse la testa e accanto alla scatola verde in costruzione vide la sagoma di una donna che teneva in mano i nastrini argento.

Indossava un grembiule a fiorellini e una gonna a quadrettoni verde e blu.

Teresa, dammi una mano a buttare i biscotti.

Mamma.

Le uscì dalla bocca come una boccata d’aria.

Quella donna, con il grembiule macchiato di sugo che impacchettava un regalo senza amore, impaziente di finire e mettersi a fare altro, aveva i suoi stessi occhi e i capelli neri e ricci come i suoi.

T. si avvicinò alla scatola capovolta sul tavolo e la ribaltò. Adesso era pronta a sentire i profumi di quella scena.

Spaghetti al sugo, soffritto di cipolla e carota, rosmarino. Tè caldo, con una zolletta di zucchero che galleggiava in superficie, e un goccio di latte intero. Burro e zucchero bruciato, briciole frantumate per terra, quelle che lei aveva provato a raschiare per far apparire il biscotto dorato.

Non puoi farci niente, Teresa. Se un biscotto si brucia sopra si brucia anche dentro. Rifacciamoli.

Così pragmatica e realista, doveva sbrigarsi a fare ogni cosa nel minor tempo possibile per non sottrarne ad altro, di più importante.  T. si ricordò come le rispondeva quando andava di fretta, non la guardava nemmeno, e le diceva che doveva sbrigarsi, sparecchiare in fretta, aiutarla a spazzare per terra, cambiarsi subito, lavarsi i denti adesso.

E lentamente quei meccanismi erano diventati ingranaggi del suo organismo super organizzato.

T. portò le mani al viso e si strofinò gli occhi. Li stava tenendo per troppo tempo spalancati e le immagini ormai brillano di luce azzurra. La cucina, la sua cucina, era scomparsa. Tranne la scatola marrone, quella rimaneva lì. Era il proiettore della scena che stava vedendo, ma che non cambiava.

Teresa, non puoi salvare tutto. Qualcosa va male, magari lo butti via, ma qualche briciola rimane sempre.

Sua madre aveva mai detto quelle parole, oppure avrebbe voluto fargliele pronunciare?

Troppi biscotti bruciati, troppi pacchetti fatti male, troppe tavole mal apparecchiate, coltelli sovrapposti a forchette, bicchieri sporchi.

Poi le briciole rimanevano per giorni e giorni sotto il tappeto, i pacchetti si riciclavano per gli anni dopo, la tovaglia non si smacchiava e i bicchieri si sbeccavano.

T. aveva provato a dimenticare, a nascondere le briciole per anni e anni sotto il tappeto, ma quella scatola aveva disseppellito una storia andata male. Un rapporto cucito e ricucito con un filo di un altro colore, una toppa messa vicino al petto. T. non riuscì a tenere più gli occhi aperti e le gambe avevano iniziato a perdere forza. Si appoggiò alla scatola, ormai sgangherata, era come se si fosse svuotata del contenuto. E quando riaprì gli occhi ritrovò la sua cucina come sempre, gialla e polverosa. La scatola era appiattita e sembrava minuscola.

Si sentì stanca, con il fiato corto di quando correva intorno all’isolato. Prese il taglia carte e iniziò a fare a pezzettini la scatola, tanti mille pezzi grandi e piccoli. Gettò tutto dentro la spazzatura, ma lasciò il fiocco rosso. Era ormai rovinato e aveva perso la forma che aveva prima, gonfia e a stella. Lo tenne da parte e pensò a un posto dove incollarlo.

Quel fiocco malandato le ricordava sua madre e quelle parole. Qualche briciola rimane sempre.

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Sara Noto Millefiori

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