
“La casa della luce” è anche il titolo del terzo e ultimo racconto di questa raccolta di Ogawa Yōko.
Sfogliare e leggere le pagine di questo libro dà la stessa sensazione di quando si accende la televisione senza farci caso, dando le spalle all’apparecchio mentre si sistemano i cuscini sul divano e ci si ricorda di aver lasciato la tisana in infusione in cucina. Torni in salotto e il cielo ti dice che sta per piovere e che forse il tuo cane dovrebbe rientrare. Quindi fai un’altra decina di passi, lo fai accomodare e torni in salone con lui che ti segue controvoglia. La tisana ha cominciato a raffreddarsi e il teleschermo si è sintonizzato su una di quelle serie del momento di cui nessuno ricorda bene il titolo perché in fin dei conti non ne vale la pena. Sei svogliata e, prima di pensare a cos’altro scegliere, cominci a osservare le scene. Sembra tutto tremendamente normale.
Una donna che rimane incinta, un ragazzo che si iscrive all’università, un’adolescente che osserva gli allenamenti sportivi del suo primo amore.
Più cerchi di trarre un senso da quella puntata già iniziata, più l’immagine sfarfalla, come se la vecchia antenna non funzionasse troppo bene. Sarà il temporale in arrivo?
Continui a fissare lo schermo e ti accorgi che non si tratta di interferenze esterne: sono i personaggi dei racconti a emanare una certa elettricità che di tanto in tanto deforma i loro volti all’apparenza innocui e privi di espressione.
In storie cariche di noiosa routine si infila con nonchalance il fetore dell’acqua stagnante, trascinando con sé un’impressione di inquietudine via via più crescente.
Sembra che le protagoniste calchino la mano di proposito seguendo il filo delle loro ossessione, della loro curiosità morbosa, delle idee malsane da realizzare senza preoccuparsi delle conseguenze. Per loro non sono affatto parte della scena. Esistono solo i “cattivi pensieri”.
I bimbi piccoli, quando piangono, si buttano sempre tra le braccia di qualcuno che possa stringerli contro il proprio ampio e confortevole petto. Sanno bene, senza che nessuno glielo abbia mai insegnato, che così si sentiranno bene e al sicuro. Questo atteggiamento prepotente tipico dei bambini fa riemergere di nuovo il mio istinto crudele.
È il corpo il motivo dominante che collega i tre racconti. Sembra che tutte e tre le protagoniste si trovino in un contesto in cui l’impatto degli eventi sul corpo degli altri abbia le redini dell’interezza della storia da raccontare. Che siano giovani e prestanti, ammalati, infantili, materni, questo in fondo non ha importanza per loro.
Ma è la forte componente uditiva associata anche a ciò che rumore sembra non farne davvero quello che contribuisce ad alimentare il senso di irrequietezza quando si prosegue a leggere. Questa è davvero la chiave della potenza narrativa di Ogawa che riesce a spostare l’attenzione da un senso all’altro a suo completo piacimento. Ci si ritrova così in bocca il sapore di cibi ottimi e dolci andati a male, a seguire il ronzio e la traiettoria delle api, a domandarsi quante sfumature di azzurro possa riflettere l’acqua.
Quale rumore farà un gancio che tiene unita una famiglia, quando si spezza?
E ancora (e per me la formula per capire appieno questi racconti):
A volte questa sua estrema vaghezza mi rendeva inquieta e così cercavo di associarlo a qualche rumore che gli somigliasse. Il tonfo misurato di una moneta che cade sul fondo di una fontana in inverno e si scontra con una goccia d’acqua. La linfa che si sente vibrare nel fondo dei condotti uditivi, dopo essere scesi da una giostra. La sensazione di notte profonda nella mano che stringe la cornetta del telefono, dopo che la persona amata ha appena riagganciato… Ma quanti potranno capire mai di che suono si tratta con l’aiuto di immagini simili?
Ormai ho terminato la “visione” e ho cambiato canale, ma non riesco a smettere di chiedermi che sapore abbia la marmellata di pompelmi americani.
Buona lettura.
La casa della luce, di Ogawa Yōko.
È considerata una delle più importanti autrici post-moderne contemporanee giapponesi. Dal 1988 ha pubblicato più di venti lavori di fiction e non-fiction e ha vinto tutti i migliori premi letterari giapponesi.
Tradotto in italiano da Mimma de Petra.