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OTTESSA MOSHFEGH: Il mio anno di riposo e oblio

Qualcosa andava bruciato e sacrificato. E il fuoco si sarebbe alzato e poi spento. Il fumo disperso.  
I miei occhi si sarebbero abituati al buio, pensai. Avrei trovato un appoggio. Uscita dalla caverna, svegliandomi per l’ultima volta, avrei visto la luce, e tutto – il mondo intero – sarebbe stato nuovo.

La protagonista de “Il mio anno di riposo e oblio” è una protagonista senza nome.
Tutto ciò che sappiamo di lei è che ha un piano: addormentarsi, ibernarsi, cadere in uno stato di sonno continuativo per almeno un anno.
È il giugno del 2000, siamo nella ricca New York dell’Upper East Side ed è così che la incontriamo: in uno dei suoi brevi momenti di veglia, nell’atrio del suo palazzo, vestita in modo confusionario, gli occhi pesti, mentre si dirige alla bodega degli egiziani sotto casa per poi tornare dritta in ascensore. Due caffè bollenti in mano.
Il suo è un tentativo di abbandonarsi forse, o come lo definisce lei stessa, un ultimo, estremo esperimento di salvezza: dal passato, dai ricordi, da qualunque dolore o sensazione.
Dormire e cancellare ogni cosa, è questo il suo progetto.
Fare in modo che ogni cellula, ogni parte del suo corpo possa rigenerarsi, permettendole di risvegliarsi nuova: via la casa della sua infanzia, via la morte dei genitori e la loro mancanza d’affetto, via Trevor, l’uomo più grande che torna da lei solo per riacquistare l’autostima persa nelle relazioni con donne della sua età. Via anche Reva, l’amica bulimica gelosa della sua magrezza che presto si trasforma in una debole voce di sottofondo, un chiacchiericcio indistinto che accompagna i rari momenti di dormiveglia sul divano in salotto. Via tutto.
Trovare pace e silenzio, lasciarsi scivolare nel vuoto invece di combatterlo.
Sua complice è la dottoressa Tuttle, una psichiatra fasulla che accetta di prescriverle ogni tipo di ansiolitico e antidepressivo per aiutarla a dormire.
È solo a un certo punto del romanzo che ci rendiamo conto di come, vuota, ammalata, insensibile e fredda da un lato, la protagonista sia anche un personaggio estremamente pratico, attivo, in un certo senso vivo.
Ed è proprio questa la parte di lei che, ironia della sorte, sembra “risvegliarsi” nei momenti di blackout, portandola a compiere azioni contro la sua volontà e sabotando il suo stesso progetto di annullamento: appuntamenti dall’estetista, feste, fotografie, chat con sconosciuti e viaggi in treno diretti a funerali cui non intendeva partecipare.
Una forma di ribellione involontaria. Un sottile, profondo e inconscio desiderio di vita che non le permette di lasciarsi davvero andare neppure nei momenti di più estremo isolamento.
“Il mio anno di riposo e oblio” è il racconto di una depressione che sembra sempre sul punto di toccare il fondo e che si rivela, invece, un ritorno alla superficie, un lasciarsi andare contro una spinta a rialzarsi, un tentativo di cancellare il passato che si trasforma nello strumento per fare pace con esso.

Sull’autrice

Scrittrice statunitense di padre iraniano e madre croata, Ottessa Moshfegh nasce a Boston e, prima delle parole, impara a leggere la musica, per poi abbandonarla e dedicarsi pienamente alla scrittura.
Oggi vive a Los Angeles e dal 2015 non è più presente su nessun social network.
Autrice di numerosi racconti e saggi, “Il mio anno di riposo e oblio” è il suo terzo romanzo ed è risultato tra i libri più belli del 2018 secondo “Washington Post”, “New York Times” e “The Guardian”.

Irene Serra

violedimarzo

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