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Scrittrici ebree italiane e Shoah: testimonianze ai margini

Il 27 gennaio si celebra il giorno della Memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto. Se vi chiedessero un libro italiano sul tema dei campi di concentramento, il primo nome a venire in mente sarebbe quello di Primo Levi; ma se doveste farne uno femminile? Perché è difficile che vengano in mente opere sulla Shoah di scrittrici ebree italiane?

Un’assenza femminile
Nonostante molte donne sopravvissute scrissero testimonianze sulla Shoah, in pochi si mostrarono interessati a leggerle e solo piccoli editori si proposero di pubblicarle.

Di conseguenza, tutt’oggi non è facile trovare nei negozi libri sulla detenzione di scrittrici sopravvissute, né tantomeno trovarne i nomi nei più diffusi manuali di letteratura. Per questo, rimane ancora oggi la percezione di un minore contributo letterario delle sopravvissute.

A tal proposito, bisognerebbe rivalutare quest’assenza femminile alla luce dei rapporti sottostanti alla costruzione del canone letterario, ai meccanismi editoriali e alle relazioni tra la letteratura e il contesto storico.

Questioni sociali ed editoriali
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, la letteratura rifletteva l’urgenza di raccontare le atroci esperienza appena vissute.

In Italia, ci fu un’iniziale difficoltà ad ascoltare le storie dei reduci ebrei. Infatti, i sopravvissuti si imbattevano nell’indifferenza generale: ognuno aveva sofferto a modo proprio ed era alla ricerca di storie di riscatto.

Sul piano letterario, questa condizione si tradusse nella preferenza per le storie eroiche della Resistenza. In quel momento, le opere sui partigiani si rivelarono le più adatte alla ricostruzione morale della coscienza del Paese, progetto sostenuto anche dalle forze politiche. Le grandi case editrici, dunque, agirono di conseguenza.

Questioni di gender e di genere
Tali processi sociali ed editoriali coinvolsero tutti gli scrittori sopravvissuti ai lager, ma le scrittrici ebree italiane si imbatterono in un ulteriore ostacolo.

Nonostante la precoce produzione letteraria femminile, le autrici trovarono una fredda accoglienza. Ai testi dei reduci si richiedeva obiettività e affidabilità: le opere a firma femminile non rispondevano a tali parametri.

In effetti, le testimonianze letterarie delle scrittrici ebree italiane non rientrano nei rigidi schemi della grande storia, delle date e dei nomi. Tale caratteristica, però, va interpretata quale atto consapevole e funzionale alla scrittura: la storia generale si piega alle esigenze della storia individuale del personaggio femminile.

La narrazione privata e intimistica dell’ universo femminile mal si accordava con il gusto dominante per la storia ufficiale. Leggendo questi testi, si nota la mancanza di date, non vi sono accenni alla politica, non si trovano tentativi di sistematizzare o spiegare storicamente l’esperienza del lager.

Al contrario, le scrittrici ebree italiane sopravvissute raccontano la propria deportazione a partire dalla specificità del loro punto di vista femminile.

Alcuni esempi: Luciana Nissim, Giuliana Fiorentino Tedeschi e Liana Millu.

Tra le sopravvissute che pubblicarono precocemente in Italia libri sulla prigionia nei lager, vi furono Luciana Nissim, Giuliana Fiorentino Tedeschi e Liana Millu.

Luciana Nissim, neolaureata in medicina, fu arrestata il 13 dicembre 1943 a Torino: arrivò ad Auschwitz il 26 febbraio 1944, dove diventò infermiera del campo. Infine, trasferita a Hessisch Lichtenau, riuscì a fuggire nell’ aprile del 1945, raggiungendo l’Italia a luglio. Presso l’editore torinese Ramella, nel 1946 pubblicò Donne contro il mostro, insieme ad un testo di Pelagia Lewinska.

Giuliana Fiorentino Tedeschi era un’insegnante: fu deportata il 5 aprile 1944 ad Auschwitz e, successivamente, immatricolata a Birkenau. Nell’autunno ci fu il trasferimento ad Auschwitz, poi nel campo di di Ravensbrück e, infine, nel sottocampo di Malchow. Venne liberata il 22 aprile 1945. Fiorentino Tedeschi pubblicò Questo povero corpo nel 1946 presso la casa editrice di Milano Edit.

Liana Millu era una maestra, scriveva sui giornali e partecipò attivamente alla Resistenza: la polizia fascista la arrestò a Venezia mentre faceva la staffetta partigiana. Giunta a Birkenau, fu trasferita prima a Ravensbrück, poi al campo di Malchow. Grazie all’appoggio della scrittrice Willy Dias riuscì a pubblicare nel 1947 Il fumo di Birkenau con La Prora.

L’identità ebraica di queste autrici segnò tragicamente il loro destino. In questi libri, l’esperienza nel campo di concentramento si traduce nel tema della prigionia nel campo di Birkenau-Auschwitz. La scrittura si relaziona alla violenza subita: è un atto terapeutico di sollievo, un mezzo di riappropriazione di identità e un atto storico di testimonianza.

La specificità del punto di vista femminile

La autorialità femminile condiziona temi e situazioni presenti nei libri. Infatti, al tema generico della prigionia, si aggiungono quelli specificamente femminili del corpo, della maternità e della sessualità.

Il corpo è un elemento cardine dei racconti concentrazionari: è il mezzo che porta i segni evidenti della tragedia, il testimone tangibile dell’esperienza nel lager. Nei resoconti delle donne, esso detiene un ruolo centrale: arriva a costituirne anche il titolo, come nel caso dell’opera di Giuliana Tedeschi. Inoltre, la corporeità si relaziona strettamente al sesso femminile: Liana Millu racconta dei tentativi di cura estetica di alcune prigioniere come atti di resistenza all’annientamento a cui i corpi sono sottoposti. Ad esempio, scrive di una compagna che si mordeva le labbra per colorirle e di una prigioniera che applicava sul viso la margarina per ammorbidirne la pelle. Nel testo di Tedeschi si rintraccia anche il sentimento di vergogna e pudore provato per il corpo femminile ad uno stato larvale, sotto lo sguardo maschile.

Vi è poi il tema della maternità: nonostante il destino di morte, essa offre sentimenti di speranza e solidarietà nel campo. Millu racconta di una prigioniera incinta, con cui diventerà amica aiutandola nella gravidanza e di una prigioniera che decide di suicidarsi con il figlio contro il filo spinato. Luciana Nissim rimane così traumatizzata dalla terribile fine dei neonati e dei bambini, da dedicarsi, una volta libera, alla pediatria.

Infine, ricorre il tema la violabilità sessuale femminile: Millu scrive sul tema della prostituzione nel bordello dei nazisti come uno dei pochi strumenti di salvezza.

Rimedi ad un mancato riconoscimento

In conclusione, alla domanda inziale c’è un’ampia possibilità di risposta. Esistono molte scrittrici ebree italiane da ricordare: oltre alle autrici citate, ci sono anche Frida Misul e Alba Valech Capozzi.

In generale, occorre revisionare il canone letterario tradizionale, ascrivendo ad esso le opere escluse in quanto scritture femminili. Infatti, nonostante le prime avversità, le testimonianze letterarie degli autori sono state rivalutate, tanto da trovare un giusto posizionamento memoria letteraria. Quelle femminili, invece, ancora oggi rimangono ai margini.

Non si tratta solo di giustizia intellettuale, ma soprattutto di un’operazione che permetterebbe di arricchire quadri letterari rimasti ancora incompleti.

Infatti, anche nel caso della detenzione nei campi di concentramento, il punto di vista femminile restituisce fatti, temi ed elementi specifici dell’universo femminile, che altrimenti rimarrebbero taciuti o assorbiti nel falso neutro del maschile.

Fonti:

Natalie Dupré, Dal racconto all’ascolto rispettoso. La testimonianza di Luciana Nissim Momigliano, Storie di storia, Oxford, 2015.

Marina Sanfilippo, SCRITTRICI E MEMORIA DELLA SHOAH: LIANA MILLU E EDITH BRUCK, Zibaldone. Estudios italianos, nº4, 2014.

Maura Catania

Maura Catania

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