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In viaggio con la fotografia di Fabian

Non avevo mai incontrato di persona Fabiana Albertini, ma ne avevo sentito parlare. Questo nome riecheggiava spesso nei ricordi dell’adolescenza di mia madre. Ho contattato Fabiana, in arte e per gli amici “Fabian”, via Instagram e ha acconsentito subito a regalarmi un pomeriggio per parlare di quello che è il suo lavoro e la sua passione più grande: la fotografia.

Entrando nella sua casa nel centro di Reggio Emilia, già respiro un’aria diversa: è come se fossi entrata in uno di quei loft, open space con soppalco che si vedono nei film, un po’ come quelli in cui sognavo di andare a vivere quando ero adolescente. Nell’ampia sala vengo sommersa da dipinti, fotografie e libri, il tutto avvolto da un dolce sottofondo di musica classica. Insomma, già lo sento che sto per intervistare un’Artista.

Selenia: Fabian, avendo parlato con mia madre, so già che come lei, sei nata a Montecchio Emilia (RE), però tu hai vissuto in tanti altri posti, giusto?

Fabian: Beh sì, ho vissuto in varie parti del mondo. La mia carriera come fotografa è iniziata a Milano nel 1992, dove facevo la fotografa di moda. Da lì mi sono spostata in altre città. Ho vissuto a Parigi, a New York, ma soprattutto a Rio de Janeiro, dove sono stata per 20 anni. Il Brasile ormai è la mia seconda casa e mi sento tanto italiana quanto brasiliana, tanto che là ho ancora una casa, dove passo diversi mesi all’anno. Ad ogni modo, è da 5/6 anni che sono rientrata a vivere a Reggio Emilia per motivi famigliari. Sono figlia unica, quindi quando mio padre si è ammalato, sono rientrata per stargli vicino e ora sono rimasta per mia madre. Comunque io viaggio sempre…

S: Viaggi per lavoro?

F: Beh diciamo di sì… O meglio, non faccio più “vacanze” nel senso stretto del termine. Cerco sempre di unire ogni viaggio a una crescita, per cui ogni viaggio che faccio mi porta o a produrre un nuovo progetto, a prendere ispirazioni per cose nuove o a incontrare nuove persone. Questo io lo chiamo “lavoro” perché viene chiamato così nel linguaggio della società dove viviamo, ma per me è una grande passione… E’ proprio la mia vita.

S: A quanto mi ha raccontato mia madre, tu hai sempre avuto questa grande passione per la fotografia. Tuttavia, so che hai fatto anche altri lavori prima di arrivarci.

F: Sì, in effetti prima ho fatto anche la rappresentante di intimo e calze velate. Tua madre se lo ricorderà bene perché il primo anno non riuscivo a vendere nulla ed ero andata da lei, tutta sconsolata, a raccontarle dei miei problemi! Fortunatamente, dopo ho avuto un grande aiuto da un mio superiore. Diciamo che lui “mi ha capita”: sono riuscita a ingranare col lavoro e ho continuato a farlo per 7 anni. Poi sai, ci sono quei momenti in cui il destino si mette di mezzo e cambia le cose. Io sono anche una persona che segue molto “il flusso della vita” e un giorno per caso, mi si è presentata un’opportunità. Una mia amica è venuta a trovarmi qui a Reggio per portarmi un regalo, accompagnata da due persone che lavoravano nel mondo della moda.

All’epoca la fotografia era un mio hobby e stavo partecipando a un concorso, quindi avevo tantissime foto sparse su un tavolo. Queste due persone hanno visto le foto e mi hanno detto che dovevo assolutamente farlo diventare il mio lavoro. In seguito sono andata con loro a Milano presso uno studio di fotografia commerciale, che è uno dei più grandi d’Europa nel settore. Mi hanno concesso di restare a osservare per tutto il giorno che tipo di lavoro facessero. A fine giornata, sono andata dritta dal Direttore e gli ho detto: “Voglio lavorare qui”. All’inizio lui pensava che scherzassi, perché di certo non poteva pagarmi uno stipendio come quello che percepivo facendo la rappresentante. Io però ho insistito e dopo due mesi ho iniziato il lavoro lì allo studio.

S: Invece quando eri più piccola? Come è scattato l’amore per l’obiettivo?

F: Un giorno, avevo 5 anni ed ero all’Isola d’Elba con mia madre. Sono sempre stata una bambina agitata e quel giorno mia madre mi ha dato in mano la macchina fotografica per calmarmi. Sai, la macchina fotografica è un po’ uno di quegli oggetti che non puoi mai toccare da piccola, perché potresti romperli e non li sai usare. Quando me l’ha data in mano, io ricordo e ricorderò per sempre, la sensazione di guardare dentro a questo “buchino” e poter scegliere cosa inquadrare e cosa eliminare dalla foto: creare una realtà che fosse solo mia. In quel momento è nata la mia passione. Dopo 8 anni, mia madre mi ha regalato la prima macchina fotografica professionale. Ho poi iniziato a seguire vari corsi e fare diversi concorsi fino alla prima opportunità a Milano.

Silent Music“, Fabian Albertini, 50×60 cm, 1996, Madrid.

S: Sbirciando un po’ sul tuo sito, si possono vedere diverse foto di mostre e dei tuoi lavori un po’ in tutto il mondo. Si è trattato di lavori su commissione o di progetti personali? Puoi dirmi come hai fatto a scegliere i vari soggetti o paesaggi?

F: In realtà quelli che puoi vedere sul mio sito sono tutti progetti personali. I progetti su commissione sono cose che facevo di più quando lavoravo nel campo della moda e di quello, sul sito, non troverai nulla. Però sì, ho lavorato anche con grandi marchi e riviste di moda importanti, sia estere che italiane. Tuttavia, quello che hai visto tu sono tutti miei progetti.

Ho iniziato con una mia ricerca artistica sulla danza e quindi con tantissime foto di corpi. Successivamente ho fatto anche tanti libri, uno dei quali era in collaborazione con un coreografo francese che era a Reggio Emilia. Questa è stata una ricerca che ho portato avanti fino al 2011 in concomitanza con il mio lavoro nella moda, ma poi ho cambiato rotta diciamo.

Eye/Calatrava“, Fabian Albertini, 100x70cm, 2007, Reggio Emilia.

S: In che senso?

F: Beh, non dico che succeda a tutti gli artisti, molti iniziano con l’arte figurativa e fanno quella per tutta la vita, ma per quanto mi riguarda non è stato così. Forse il periodo della danza e dei corpi mi è appartenuto solo fino a una certa età, poi ho avuto un’evoluzione del mio essere e ho iniziato a fare ricerche più interiori. Infatti, dal 2012 ho iniziato dei lavori più concettuali, andando soprattutto a fotografare i deserti del mondo. Per me fotografare i deserti è come entrare in contatto col mio “io” interiore: questo mi calma tantissimo e mi dona una pace infinita.

A questi deserti ho applicato una simbologia specifica, iniziando anche a creare delle sculture che io metto davanti alla foto, che applico anche digitalmente alla fotografia e che rendono tutta l’opera tridimensionale. Così ho creato questa mia serie che si chiama “Seguendo una linea” e queste linee o questi “totem” che sono anche sculture, diventano come porte verso altre dimensioni. Per me queste sono altre dimensioni intese come “spirituali”, ma possono essere intese anche come dimensioni emozionali o psicologiche.

S: Quindi tu che messaggio vuoi inviare attraverso le tue foto?

F: In realtà voglio solo esprimere emozioni. Se un’opera d’arte non ti trasmette nulla allora qualcosa del messaggio che si vuoi mandare, non è passato. A me interessa che la gente interpreti anche la mia arte a modo loro, che viaggi dentro ad essa. Non trovo che sia così importante il motivo per cui ho creato la foto, ma è importante per me produrre l’arte. E’ un’esigenza fisica e mentale che ho. Ad esempio, se sto facendo un viaggio, ma non sto creando un progetto, rischio di tornare a casa “piena” di idee da buttare fuori. E’ come se riempissi troppo un vaso, che poi rischia di debordare. C’è bisogno di un equilibrio.

Tre fotografie tridimensionali di Fabian: 1. “Three dimensions/linha#4“, 2020 2. “Totem Yellow“, 2016 3. “Vertical Line/Black“, 2020.

S: Quando ti accorgi di voler fotografare una persona o un paesaggio o una situazione, quanto improvvisi e quanto conta invece lo studio dell’immagine?

F: Io sono molto istintiva. Ovviamente parto già con l’idea di un progetto nella mia testa, poi però mi piace sempre avere anche l’elemento sorpresa. Ad esempio, un giorno tu vuoi andare a fotografare un posto, ma quel giorno sta piovendo. Però tu hai solo quel giorno da passare in quel luogo, quindi devi per forza creare qualcosa anche se le condizioni sono diverse da come te le aspettavi. In questo senso, lavorare nella moda mi ha aiutato tantissimo.

Nella moda partivo per dei viaggi e stavo una settimana a Cuba, in Egitto o in India e avevo una grandissima responsabilità anche a livello economico, perché dovevo per forza tornare con un lavoro fatto. Per cui, anche se per una settimana pioveva, io dovevo comunque tornare con le fotografie di modelle magari in esterno e questa è stata una grande scuola. In portoghese si dice che ho sviluppato un pensamento lateral, cioè un pensiero laterale. In pratica uso un’altra parte del cervello e questo mi permette spesso di trovare delle soluzioni alternative.

S: Ci sono dei luoghi del mondo dove ti piacerebbe andare, ma che non hai ancora avuto l’occasione di visitare?

F: Ho in programma di andare sicuramente in Australia e in Mongolia. Voglio visitare e fotografare i deserti che mi mancano per completare il mio progetto.

S: Ho notato che molti fotografi scelgono di andare a fare reportage in zone povere o che si trovano molto vicine a delle zone di guerra. Hai mai pensato di farlo anche tu?

F: Non è una cosa che mi appartiene. Sono una pacifista e un’ambientalista, quindi faccio spesso anche tanta denuncia ambientale, come il mio progetto sull’Amazzonia, per il quale ho ricevuto un premio dal Presidente della Repubblica e che è stato esposto alla Biennale di Venezia. Però io mi concentro molto sulla bellezza, ho questo lato estetico molto forte. Anche quando mi è capitato di andare in posti come l’India, dove ho fotografato i monaci tibetani o nelle favelas di Rio, ho sempre e comunque creato dei lavori abbastanza plastici, sulla bellezza delle persone, senza mostrare la distruzione dei luoghi dove si trovano.

Moving and still I“, Fabian Albertini, 150x100x5cm, Amazzonia, 2018.

S: Ho notato che hai dei profili social, come Instagram. Ti piace usarli?

F: Sì e sono abbastanza rapida nell’usarli. Uso soprattutto Instagram perché è un po’ come un portfolio, che ti permette di mostrare i tuoi lavori. Ultimamente uso molto le stories, ma metto meno posts. Dipende sempre anche dal periodo. Mentre lavoro a un progetto è difficile star dietro ai socials e comunque cerco sempre anche di dedicarmi a me stessa e alla mia vita.

S: Cosa ne pensi di quelle persone che adesso scattano le foto e poi utilizzano tantissimo le applicazioni per il ritocco in post produzione, come ad esempio Photoshop?

F: Guarda, io so utilizzare praticamente ogni tipo di macchina fotografica, ma siccome sono partita con l’analogico, ho imparato a creare la foto perfetta nel momento in cui la scatto e continuo a pensare che bisognerebbe fare così. Per me la post produzione va utilizzata solo a livello creativo, cioè per aggiungere cose diverse che portino ad un significato particolare, ma lo scatto non deve essere modificato. Non mi è mai piaciuto l’uso e l’applicazione dei filtri alle fotografie e comunque so già come utilizzare le luci per far risaltare un viso particolare rispetto a un altro. Oltretutto, al giorno d’oggi, queste fotografie rischiano di diventare dei modelli falsi per le ragazze e i ragazzi che vogliono a tutti i costi emulare ciò che vedono e questo non è salutare.

S: Tu sul tuo sito ti definisci una “artista nomade”, però io so che sei sposata. E’ difficile mantenere viva la relazione con tua moglie dovendo viaggiare spesso?

F: Beh lei viaggia con me, quindi non è un problema! Noi stiamo insieme da 12 anni e ci siamo conosciute perché Juliana era una mia alunna di un corso che ho tenuto in un’università in Brasile. Il suo lavoro era più orientato verso la moda, come una stilista, ma era anche interessata all’arte e così ci siamo conosciute a Rio. Siamo poi andate a vivere insieme a New York e lei ha studiato alla Sotheby’s per capire come funziona una galleria d’arte. Quando poi siamo tornate in Italia, ha creato una galleria d’arte “nomade”, cioè senza indirizzo fisso e insieme l’abbiamo battezzata “No Address Gallery“, che non è una galleria fissa e si occupa di progetti speciali.

S: Noi siamo un sito e un blog aperto all’inclusione e alla diversità: puoi dirci se è stato difficile essere un’artista donna e sposata con una donna? Quanto è “aperto” in questo senso il mondo della fotografia?

F: Beh, non a caso io ho deciso di farmi chiamare “Fabian”, togliendo la “a” finale. E’ capitato quando ho iniziato con il mio lavoro nella a moda a Milano, che mi venissero affidati due incarichi, ma pensavano tutti che io fossi un uomo e non so se mi avrebbero scelta altrimenti. In generale è un mondo ancora molto maschile. Solo negli ultimi anni si è iniziato molto a parlare di uguaglianza di genere, ma ancora oggi, la maggior parte degli artisti che si ricordano sono uomini. Io voglio che le mie foto piacciano per come sono e non per quello che sono io. Inoltre non sopporto quando estremizzano le cose e dicono: “Facciamo una mostra solo per le donne”. Ma perché? Noi siamo come gli uomini, perché abbiamo bisogno di una mostra solo per noi? Non possiamo esporre insieme a loro? C’è ancora molta ipocrisia.

Controlled Lives/Capo di Buona Speranza 2017″. Una coppia di turiste (io e mia moglie); una delle due è stata denunciata dal sistema e riconosciuta come omosessuale (simulazione grafica). Abbiamo perso la nostra libertà?

Per quanto riguarda la mia vita privata, diciamo che l’ho resa pubblica non da molto tempo. Ho sempre cercato di preservare e proteggere la mia vita, ma adesso non mi interessa particolarmente, anche perché ho meno paura. Ho anche fatto un progetto su questo che sta girando per vari festival della fotografia, dove ho messo anche delle foto con me e Juliana e che ho chiamato “Controlled Lives“.

E’ un lavoro politico, di cui vado molto orgogliosa, che si occupa della vita privata di una persona legata alla biometria facciale. In pratica, nell’era in cui possiamo sbloccare il nostro smartphone con il nostro viso, si ipotizza che possano creare e mettere in un database la nostra “immagine” del volto per poi riconoscerci in tutto il mondo e sapere tutto di noi, dal nostro sesso al nostro orientamento sessuale. E’ una cosa che mi ha toccato molto perché io sono fortunata, ma in tanti paesi si rischia la pena di morte e le persone devono nascondersi.

White Sea #1“, Fabian Albertini, 180x140cm, 2020.

S: C’è qualche altro tuo progetto futuro che sta per realizzarsi?

F: Ho iniziato una collaborazione con una galleria di Los Angeles nel 2020, dove sono rappresentata da Portia DeRossi (moglie di Ellen DeGeneres). Lei aveva visto un mio lavoro che si chiama “Bianco Deserto“, dove ho dipinto una parte a computer e mi ha chiesto se potevo proporle altri lavori di questo genere. Così ho iniziato una serie particolare di foto che poi dipingevo anche a mano, come “White Sea“. Infatti adesso ho iniziato anche a dipingere, qui in casa ho molti quadri miei.

Devo dire che adesso che l’ho conosciuta, Fabian è proprio come la sua arte: da conoscere, da scoprire e da capire. Per questo motivo, vi invito a visitare una delle sue mostre a Reggio Emilia o nel mondo.

Selenia Romani

Selenia Romani

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