È il primo giorno di autunno e le mie scarpe fanno ciac ciac sulle scale di casa. Troppe foglie rimangono appiccicate sotto le suole e non riesco a poggiare il piede senza sentire quel tappeto molliccio sotto. C’è il gatto della vicina che mi accoglie sul pianerottolo. Mi fa le fusa come se mi conoscesse da una vita, ma forse ha solo bisogno di qualcuno che gli dia da mangiare. Lo accarezzo e prendo le chiavi di casa. Le sfilo dalla borsa e osservo l’insieme eterogeneo di pezzi di ferro. La piccola chiave per la cassetta delle lettere non la uso da troppo tempo, infatti è l’unica che ha conservato un profilo nuovo, liscio, senza graffi. Così, a partire da quel pensiero, senza nessun altro motivo, decido di usarla.
Cerco il mio nome sulla cassetta, quanti nomi ci sono, chissà dove è finito il mio. Trovo il mio cognome dove non ricordavo. Infilo la punta dentro la serratura quasi arrugginita. Faccio fatica a girarla e devo usare più forza del previsto. Giro energicamente, stringo e forzo la rotazione. La punta sembra quasi spezzarsi in due ma flettendola da un lato e dall’altro riesco a sfilarla, aprendo il cassettino di metallo.
All’interno la stessa forza che teneva serrata la cassetta adesso la spinge con vigore per aprirla. Così, senza che faccia in tempo ad accorgermene, una cascata di acqua esplode senza fare rumore e mi travolge completamente.
L’acqua fredda mi colpisce come uno schiaffo in faccia e mi trascina giù per le scale. Mi sbraccio più che posso per non affondare e tengo la testa in su, sputando tutta l’acqua che mi è finita in gola. Sa di mare e il sale mi brucia gli occhi, ma riesco comunque a tenerli spalancati. Sono in mezzo alla strada davanti casa e vengo spinta senza poter reagire. Guardo dalle finestre del mio condominio ma non c’è nessuno affacciato a cui chiedere aiuto. La strada è piena di automobili vuote. Provo ad aggrapparmi alla portiera di un’auto a cui passo a fianco, ma l’acqua mi trascina via e non riesco neanche a sfiorarla. Provo ad urlare, ma dalla bocca non esce nulla, solo zampilli di acqua salata. Mi lascio trascinare e mi metto rivolta a pancia in su, guardando il cielo che si scurisce ad ogni metro che percorro.
Da lontano vedo qualcuno sul marciapiede che cammina a passo svelto. Mi avvicino alle figure accompagnata dall’acqua. Sono due ragazzi che si tengono per mano, passeggiano sorridendo e si guardano negli occhi. Non si accorgono della mia presenza, e nemmeno del fiume d’acqua che scorre a due passi da loro. Vorrei che mi vedessero ma camminano lentamente senza fare caso a quello che accade intorno. Intanto, continuo a scendere giù e a navigare sull’acqua. Non ne riesco a percepire la temperatura, calda o fredda non importa.
Adesso provo a sbracciarmi e darmi una forte spinta con i piedi, non posso arrendermi alla forza dell’acqua così presto. Così, allungo le gambe e spingo il corpo in avanti. Provo a muovere i piedi più forte possibile e le braccia in contemporanea. Una bracciata profonda, poi un’altra. Non riesco. Il fiume è una barriera invalicabile e io sono in balia della corrente.
L’acqua mi entra in gola, mi sfila le scarpe, mi strappa i vestiti. Rimango spoglia senza protezioni e perdo ogni riferimento spaziale. Dove sono finita, dove sto arrivando, dove l’acqua mi sta conducendo? Il paesaggio non lo conosco, questa non è la mia città. Ogni legame con quello che conoscevo prima sembra non esistere più. Sui muri dei palazzi non è indicato il nome della strada, nemmeno un numero civico.
Accanto a un palazzo dalle pareti scure vedo un uomo in giacca e camicia che cammina a passo lento. Guarda per terra accostando una sigaretta alla bocca, poi si avvicina a un vecchio portone, entra dentro senza girarsi. La luce della finestra del palazzo si accende e riesco a intravedere la sua sagoma che sale le scale.
Continuo a farmi cullare dall’acqua e chiudo gli occhi. Appena li spalanco il paesaggio è cambiato un’altra volta. Non ci sono più case, automobili posteggiate, marciapiedi. Sono avvolta da una fitta foresta che ha sostituito tutto quello che conoscevo. Edere verdi pendono dall’alto come stelle filanti, alberi che arrivano al cielo mi passano di fianco, cespugli di un verde scurissimo dai fiori rosso fuoco costeggiano il fianco del fiume che mi guida. Adesso l’aria è più umida e sa di pioggia.
Sento scendere qualche goccia che mi bagna la faccia. Lacrime di pioggia scendono dai miei occhi e si mescolano con l’acqua del fiume che sta diventando sempre più scuro. Il mio corpo si fonde con le particelle d’acqua e mi sento anch’io una grande goccia viscosa. Sento il mio corpo diventare viscido, così scivolo ancora meglio dentro l’acqua nera. Scorro sempre più veloce e non riesco a vedere la fine del canale.
Il cielo è una patina scura e la luna una macchia lattiginosa che a malapena si intravede. È l’unica fonte di luce a cui mi provo ad appigliare per sentirmi meno sola.
Mentre guardo il cielo mi sento attraversare da un formicolio dalla testa fino ai piedi. Provo a irrigidirmi ma il mio corpo è senza forze e non riesco a controllare i movimenti. Qualcosa si aggrappa al mio piede. È appiccicoso e rugoso.
Qualsiasi cosa sia, per quanto provi a staccarla dalla presa, non smette di stringere sempre di più e mi tira verso il basso.
Piccole ventose si aggrappano ai piedi, poi alle caviglie, poi alle cosce. Il mio corpo non reagisce più e riesce a rifiutare quell’abbraccio segreto. Ormai è l’unica forma di contatto con il mondo che mi resta. Mentre le ventose si agganciano sui fianchi e poi sull’addome, scendo sempre più in basso e finisco sott’acqua.
L’acqua mi avvolge e chiudendo gli occhi immagino il cancello di casa mia. Si apre ed entro nel cortile, cammino ed entro in casa. Ma quella non è casa mia e rimango a fissarla senza entrare. Adesso casa mia è quel posto inabissato e l’acqua è dentro di me.