“Hijab butch blues”, per me, non è stata solamente la storia di Lamya, ma anche un cammino verso la libertà e un’occasione di comprendere la potenza dell’autodeterminazione. La sua vita, narrata attraverso le Sure del Corano, mi ha insegnato che niente è scontato e che le identità, seppur all’apparenza lontanissime, possono intrecciarsi tra loro.
Non parlerò della trama del libro, che lascerei scoprire a voi, ma mi piacerebbe soffermarmi su alcune delle riflessioni che questo libro ha scaturito in me e che, sicuramente, cambieranno il mio modo di vedere le identità e le storie altrui.
In primis, mi preme sottolineare che sono una ragazza bianca e non religiosa che ha letto la storia di una ragazza non bianca, musulmana e queer. È stato inevitabile, dunque, che la mia esperienza personale e la mia ignoranza influenzassero la lettura di questo memoir: ho dato molte cose per scontate e, inevitabilmente, ho proiettato su Lamya dei miei pregiudizi.
Ad esempio, ho un’idea del tutto “occidentale” dell’immaginario queer: ho sempre pensato che nel percorso di una persona queer il coming out fosse qualcosa di importante, quasi essenziale, ignorando completamente il fatto che sia anche un grandissimo privilegio. Senza l’intenzione di depotenziarne il significato, non per tutt* il coming out è una necessità, ma, soprattutto, non per tutt* è un’opzione percorribile. Il coming out è un privilegio perché non è sempre un’opzione sicura. E poi, aggiungo io, la propria identità sessuale e di genere può anche essere un fatto del tutto personale, non per forza condivisibile ai più.
Un altro insegnamento che mi ha dato “Hijab butch blues” è che le rappresentazioni non sono granitiche, ma anch’esse fluide e interpretabili. Anche qui: non voglio assolutamente indebolire la forza delle rappresentazioni. Ritengo sia sempre importante (e del tutto umano, aggiungerei) il rispecchiarsi nell’altr* e il vedere validata la propria identità, ma non per questo le rappresentazioni non possono adattarsi al nostro essere e al nostro sentire.
Grazie al percorso di Lamya ho capito che le nostre identità sono come degli edifici aperti: le rappresentazioni e le etichette ci aiutano a costruirli e a renderli solidi, ma per farli nostri devono essere mutabili, aperti e comunicanti tra loro. Mutabili perché non sono uguali per tutt* e possono cambiare nel tempo, aperti perché non sono opprimenti come delle gabbie e comunicanti tra loro perché possono influenzarsi a vicenda (ma non per forza). Prendendo l’esempio di Lamya, per quella che è la nostra visione “occidentale” dell’essere queer, questa idea sembra essere inconciliabile con l’immaginario che abbiamo della religione. In realtà l’essere queer (la “casa queer”) è un’esperienza del tutto personale (può essere una casa con giardino, un appartamento, un palazzo ecc…) che può benissimo convivere con l’essere religios* (la “casa della religione” o qualsiasi altro edificio decidiamo di abitare) e queste due identità possono comunicare tra loro, stante il fatto che per altre persone possono anche non influenzarsi minimamente. Siamo degli esseri estremamente complessi e contraddittori per cui i concetti di identità e di libertà sono del tutto personali e non sta a noi avere dei pregiudizi su come debba essere o su cosa debba fare un’altra persona in quanto a X.
In breve, questo libro mi ha insegnato tanto e mi ha dato la possibilità di confrontarmi con i miei pregiudizi e le mie idee, arricchendomi a ogni pagina. E di questo ne sarò per sempre grata. Mi pare scontato, ma vi prego di inserire “Hijab butch blues” tra le vostre prossime letture: sono sicura che mi ringrazierete.