Sono sola per strada e sta piovendo. Ho scelto la data di oggi con cura, l’ho segnata sul calendario con un post-it arancione e ci ho scritto sopra pioggia. Mi sono affidata al meteo, anche se negli ultimi tempi sbaglia sempre e a volte sono costretta a rimanere a casa anche se non l’ho pianificato la sera prima.
Sta per fare buio e le ultime luci del sole fanno brillare le pozzanghere come specchi incantati, e mi viene voglia di metterci un piede dentro e fare schizzare quelle goccioline sporche e luccicanti sui miei vestiti. Invece le schivo, non posso, e continuo a camminare, un braccio teso in alto che tiene l’ombrello e l’altro attorno al busto, per riscaldarmi. Ho indossato il soprabito impermeabile, quello che tengo sempre dentro l’armadio ma che non uso mai. L’ho tenuto fuori a prendere aria per due notti, così evaporava l’odore di naftalina e di lavanda che avevo sparso in tutti gli scaffali e ora mi dava alla testa. L’ho indossato e mi stava largo, così ho messo una cintura attorno, ma aveva iniziato ad assomigliare a un accappatoio ingombrante. Però era l’unico che avevo e non potevo rimandare.

Così oggi cammino coperta da un mantello cerato che respinge l’acqua ed è proprio quello che mi serve. Perché se tocco anche solo una goccia di acqua dolce che cade dal cielo io mi sciolgo e non voglio farlo subito, non lì, non sulla strada. Non voglio che l’acqua dentro di me si sparga sul grigio antracite dell’asfalto. Non voglio che le auto mi calpestino, che finisca dentro una di quelle pozzanghere, pestata dai salti dei bambini, sballottata a destra e a sinistra, mossa come una biscia tra i sanpietrini e catapultata dentro un tombino. No, io quel posto non lo scelgo.
La strada sembra quella che ho percorso la notte di dieci anni fa, quando ho preso questa forma. Anzi, è proprio quella. La notte in cui sono diventata fatta di particelle d’acqua, avvolta da una veste di carta velina e dentro un mare di bolle fredde. Quindi, no, non voglio rimanere qui per sempre. Ha iniziato a piovere più forte, le gocce sono grosse come biglie trasparenti, picchiano i tetti delle macchine che passano accanto a me e mi puntano gli abbaglianti addosso.
Cosa fa questa qui, avvolta da un accappatoio, di sera, sotto la pioggia, da sola.

Mi giro dall’altro lato perché la luce mi fa male agli occhi e mi tocca strofinarli con il palmo e io non riesco, perché una mano è impegnata con l’ombrello e l’altra è dentro l’accappatoio, che stringe le costole appuntite. Un uomo mi sfiora il braccio, mentre corre sotto la pioggia, credo che non mi abbia vista. Un altro si ripara la testa con la valigetta e si precipita dentro l’automobile. C’è chi fugge dalle gocce che scendono dal cielo nero, ormai è diventato nero, e chi invece si lascia travolgere dalla tempesta. Abbasso lo sguardo, cammino con la testa china. È un gesto religioso il mio. Chiedo pace e silenzio. Fermatevi di muovervi, bolle d’acqua fredde che vorticate tumultuose da giorni, vi prego.
Pioggia, tu e io siamo così simili, due sorelle che si incontrano dopo tanto tempo. E io da quella notte non faccio che sognare acqua, e adesso sembra di stare in uno di quei sogni annebbiati, fatti di goccioline.
Acqua dentro un bicchiere con il bordo macchiato di rossetto rosso, lasciato su un tavolino basso di fronte a un divano a due posti, con i braccioli di legno che mi facevano male quando poggiavo la schiena mentre lui si avvicinava a me, voleva abbracciarmi, ma io mi ritiravo indietro.

Gocce di sudore, gocce di acqua acida e sporca, sul mio corpo, sul suo corpo.
Acqua di lacrime di dolore, di resistenza, di debolezza, di denti fragili che digrignano. Di labbra pizzicate, morse, afferrate con gli incisivi per sopportarlo.
Acqua di saliva sul collo.
Acqua che scorre sotto la doccia. Me la sento ancora addosso, mischiata al viscoso del bagnoschiuma che avevo usato quella sera, ne sento l’odore. Sa di miele e vaniglia ed è giallo e denso.
Le gocce lasciano la scia sul mio ventre, rimbalzano, gravitano fino a terra e formano una pozza che viene risucchiata dallo scarico, formano un vortice fatto di acqua, sapone e particelle invisibili della mia pelle. Vengono espulse come corpi estranei dal mio corpo, scorie da eliminare, estranei da scacciare. L’acqua lava la superficie esterna del mio corpo. Un corpo che si desquama. Acqua che bagna, acqua che risana.
Poi, acqua piovana, alla fine di ogni sogno. C’è poco prima di svegliarmi e compare pronta a consegnarmi la sua eredità. Un corpo come il suo, liquido e senza forma.
Acqua fredda e improvvisa, acqua che non mi aspetto, che sento leggera sulla fronte, mi cola sul naso, scende fino al mento e mi bagna i vestiti. Mi accompagna per la strada e grazie a lei non sono più sola.
Poi, la saluto e mi sveglio.

Oggi, però, è diverso. Ho deciso di affrontarla. Continuo a percorrere quella strada che conosco a memoria, scendo fino al corso principale, un gruppo di ragazzini si rincorrono e sfidano la pioggia. Una donna chiude le persiane di casa, si intravedono luci fioche dagli appartamenti, una sonata di Chopin al pianoforte in lontananza. Il fiume che si riempie di acqua. Poi la luna, coperta dalle nuvole. Un centrino della nonna scolorito dopo tanti lavaggi. La sua immagine si getta sulla superficie del fiume, si guarda allo specchio e si vede mossa, sfocata. Anche lei è fatta di particelle in movimento, come me.
Mi avvicino al fiume nero, il livello dell’acqua si alza, inghiotte terra, foglie, arbusti.
Poggio l’ombrello su una panchina, tengo il cappuccio fino al naso e lenta sfilo le scarpe. Via uno stivaletto, poi un altro. Le calze si inzuppano, percepisco l’umidità che ammorbidisce le dita dei piedi. Poi apro l’impermeabile, lo piego e lo accosto all’ombrello. I capelli si stanno riempiendo di acqua e diventano tesi e viscidi. Tolgo il resto dei vestiti, mi spoglio e infilo un piede dentro l’acqua. Sento la pelle sfrigolare, come un abbraccio elettrico, una scossa di amore e bollicine frizzanti. Non ho più paura.
Rimango per metà immersa dentro il fiume. Mi lascio avvolgere da quell’abbraccio tossico, ne accolgo la sensazione con affetto. Guardo la luna per l’ultima volta. È la stessa luna della notte di dieci anni fa, la saluto. Lei conosce la mia storia e ha visto la mia trasformazione. Solo lei può capire quello che sto facendo, perché voglio diventare acqua di fiume, perché sento di andarmene e di non stare più al coperto, lontana dalla mia vera essenza.
E così, avvolta dal nero caldo e accogliente dell’acqua, mi lascio ingurgitare dalla voracità del fiume e, senza provare dolore, saluto il cielo e mi sciolgo.
Una risposta
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