In un articolo che ho scritto sempre qui su Viole di Marzo, ho parlato della mostra “Vetro e Lirica. Soffi d’arte” che si è tenuta al Castello Sforzesco di Milano fino al 30 aprile 2023. Nel raccontare questa interessante iniziativa, volta a coniare il mondo della lirica con le tecniche di lavorazione del vetro, ho descritto due opere che mi hanno particolarmente colpita; una di queste è stata Turandot di Maria Christina Hamel, designer e artista che ho avuto il piacere di intervistare. Una piccola anticipazione: le sue parole ci dimostrano, ancora una volta, di come l’essere una donna nel mondo dell’arte sia una discriminante, di come rendere in arte l’emancipazione femminile e come la figura femminea può essere una fonte d’ispirazione.
Classe 1958, Maria Christina Hamel nasce a New Dehli, in India, dove trascorre la sua infanzia. Si sposta molto: sempre durante questa prima fase della sua vita ha avuto modo di vivere in Thailandia e Austria. Successivamente, si trasferisce a Milano per studiare Design industriale alla Scuola Politecnica di Design, dove si laurea nel 1979. Dopo una serie di esperienze di lavoro con i grandi nomi del design, come quella di assistente principale di Alessandro Mendini, partecipa allo studio Alchimia, dove realizza principalmente opere in vetro e ceramica. Numerose sono altresì le sue esperienze di insegnamento: nel 2019 ha fondato con Cesare Castelli “Mikrodesign.it”, portale dedicato alle autoproduzioni di cui è direttrice artistica; è anche co-fondatrice di “Milano Makers”, associazione dedicata al design indipendente e alle autoproduzioni e le sue creazioni sono parte di importanti collezioni, come la Triennale di Milano.
Dalla sua biografia si possono notare i numerosi sposamenti che lei ha compiuto. Il suo essere donna, e poi artista donna, ha influenzato in qualche modo il suo percorso? Sente che è cambiata la percezione che le altre persone hanno di lei sulla base della sua identità? In particolare, mi chiedevo se il fatto di essere donna e non uomo abbia influenzato la sua formazione, ed eventualmente se ha trovato delle differenze in base al paese in cui ha vissuto.
Sono stata educata bilingue (italiano da mia madre, tedesco da mio padre) e sento un forte legame con l’Austria, anche se ultimamente ci vado raramente. Essere bilingue può essere un handicap perché sembra di non essere a proprio agio né in una né nell’altra lingua. Il fatto di aver passato parte della mia infanzia in Asia (India e Tailandia) mi ha dato la possibilità di avere un rapporto intimo con quelle culture. Ho sentito di essere discriminata come donna dal momento in cui mi sono messa a lavorare come designer, progettista e artista; questa cosa è avvenuta soprattutto a Milano nell’ambiente di lavoro di design, contesto per sua natura misogino. Ho sentito come i miei colleghi e capi maschi si sentissero liberi di appropriarsi delle mie idee creative in quanto donna, assistente e collaboratrice. Ci sono tanti modi per impadronirsi delle idee: si può carpire l’essenzialità e trasformarla, o semplicemente copiare, oppure denigrare nel dichiarare che sono idee di poco conto per poi riutilizzarle, ecc. In un periodo in cui ho fatto analisi mi è stato spiegato che c’è un “boia” perché c’è una “vittima” che gli si offre. Questo concetto è fondamentale e ho impiegato molto a comprenderlo, anche perché nella vita spesso ho riscontrato che la gentilezza è scambiata come debolezza.
In occasione della mostra “Vetro e Opera Lirica. Soffi d’arte” presso il Castello Sforzesco ha presentato una scultura in vetro rappresentante Turandot. Come mai questa scelta? Avevo letto, inoltre, il suo estratto all’interno del catalogo della mostra “Vetro e Lirica. Soffi d’arte”: “Per me Turandot è un’eroina positiva in quanto prova con tutti i mezzi a opporsi a un destino deciso da suo padre. Perfetta metafora della lotta di emancipazione da una società patriarcale”, potrebbe approfondire anche questo punto?
La mia Turandot vuole ricordare questo mio legame con l’Oriente. I suoi colori e il suo design rispecchiano la mia esperienza progettuale milanese; l’anima conflittuale della Turandot è espressa dal vetro qui usato come materia, che riflette il rapporto gelido che ha con suo padre e più in generale con il mondo patriarcale maschile. La sua estetica la rende indifferente alla sofferenza come se il suo punto di vista fosse “dall’alto.” Mi affascina nel personaggio di Turandot la descrizione di lei come crudele. Questo lato si abbina molto bene alla freddezza e la fragilità del vetro. La caratteristica della sua crudeltà si abbina molto bene a una forma di emancipazione dalla gabbia patriarcale in cui si trova. Crudeltà e bellezza spesso vengono abbinate e messe sullo stesso piano; a me pare che nel suo caso le dia la giusta distanza mentale per riuscire a intervenire e rompere gli schemi in cui si trova ingabbiata.
Ci sono altre opere che lei ha realizzato che si ispirano in qualche modo a un’altra donna o, più in generale, alla figura femminile?
All’inizio della mia educazione artistica ho trovato per caso un libro, in una libreria esoterica, sul mito di Melusina e mi sono identificata con questa figura “mitologica” non solo raffigurandola, ma ne ho anche acquisito la sua ideologia. Come se il mio essere artista sia un segreto che mi porto dentro. Una volta ho raffigurato Melusina senza bocca, come se non avesse la possibilità di parlare. Più volte l’ho raffigurata con le mani che tengono un sole sopra la testa e con la parte finale della sua lunga coda che avvolge la luna. Più recentemente ho disegnato le quattro stagioni come visi di donne, con dei copricapi su cui poggiano degli oggetti tipici della stagione di riferimento. È interessante notare come una donna esprima la sua femminilità sia che venga rappresentata in una potente nudità animalesca (Melusina) sia che trasmetta tutta la sua sensualità con un raffinatissima immagine di abbigliamento e acconciatura (Turandot). Nella mia vita mi sono sentita spesso Melusina anche se nella mia ormai lunghissima esperienza lavorativa avrei fatto meglio ad essere Turandot.