Il mio corpo è coperto dall’odore della sigaretta che stai fumando mentre mi baci e mi tocchi i capelli, in mezzo a una pista illuminata dalle luci accecanti della discoteca, con la gente che mi spinge, si accalca, mi finisce sopra, mi tocca il culo. Tu, però, continui a baciarmi e non ti interessa di quello che succede attorno. Mi metti una mano sul vestito, lo accarezzi come fosse di velluto. Invece a me punge le cosce, mi tira sul seno, è appiccicato sulla pancia e mi segna tutte le forme. Mi tocchi il collo, mi dici avvicinati ancora un po’, non ti allontanare, non avere paura, mentre bruci il tabacco sopra la mia fronte. Tu troppo alto, io non ti raggiungo nemmeno con i tacchi che ho rubato a mia sorella.
La musica scava dentro le orecchie e non sento quello che dici, guardo le tue labbra muoversi e intuisco cosa stai per chiedermi. Accosto l’orecchio destro alla tua bocca, andiamo fuori, mi urli. Se la musica smettesse di suonare tutti sentirebbero cosa mi hai detto e farebbe eco nella sala, rimarrebbe per troppi secondi intrappolato in uno spazio minuscolo, invece quello che percepisco è una lieve vibrazione d’aria, niente di più. Allora mi afferri il polso, mi trascini in un mezzo alla gente come in una gincana fatta di corpi luccicanti, scoperti, incollati tra di loro. Mi sento trainata in un sentiero che non conosco, in un posto che non mi appartiene. Sembro una bambola di porcellana truccata male.
Ci ritroviamo fuori, da soli, in un luogo freddo. Mi chiedi se voglio la tua giacca, ma io agito la testa e ti faccio capire che ce la faccio anche così, con un vestito in miniatura che si solleva di continuo, con le gambe scoperte, forse avrei dovuto mettere le calze, è vero, ma chi li aveva a casa i collant a rete, al massimo quelle nere coprenti. E allora niente calze, al freddo si può resistere. I capelli sciolti sono la mia coperta. Ti guardi intorno, giri la testa e scruti la situazione, sentinella impaziente, ubriaca. Mi dici che dobbiamo allontanarci un pochino, che hai visto l’amico di Tiziano, e la sorella di Lucia, ma chi è Lucia, chi è Tiziano? Faccio quello che mi dici, ti seguo, mi porti dietro l’edificio di mattoni grigi.
Siamo io e te, da soli, adesso. Mi afferri la mano e mi sussurri facciamolo. E allora, a quel punto, chiudo gli occhi e scappo.
Mi è facile fuggire dalle cose, quasi quanto finirci invischiata, di solito. Mi lascio manipolare, plasmare come una pallina di plastilina, quelle colorate che mi davano da bambina e che io quasi quasi mangiavo, talmente era buono il sapore. Ma io questo non te l’ho mai detto.
Quindi chiudo gli occhi e fuggo. Prendo la bici rossa, è posteggiata dietro di me. L’ho messa lì di proposito. Ti lascio appoggiato alla parete, sei immobile e più sfocato. Non mi dici niente, non mi tiri verso di te come avevi fatto prima, mi lasci andare. Allora corro verso la bicicletta, salgo su e mi do una spinta forte, con i tacchi di mia sorella che strisciano sull’asfalto e segnano di bianco la strada.
Devo togliere quell’appendice estranea che non mi appartiene e allora via, afferro il piede destro e butto la prima scarpa dietro di me. Poi la seconda e adesso inizio a pedalare. L’aria fredda taglia la pelle come lama affilata, mi scombina i capelli e me li porta tutti indietro, mi solleva il vestito, mi punge le ginocchia. Ma io continuo a pedalare, sempre più veloce, sempre più forte. E dopo qualche secondo non mi fa più male e mi abituo.
Attorno a me la città dorme e ha le stesse tue sfumature, grigio cenere di sigaretta. Nessuna luce intorno, solo il fanalino che diventa l’unico faro in quell’oscurità e che fa risaltare in qualche modo che non capisco il rosso brillante della mia bici. Sono un fantasma rosso che sfreccia per la città e non viene visto da nessuno. Un fantasma che indossa un vestito che sembra sgretolarsi con il freddo, si fa in mille pezzi come coriandoli di carnevale. Lo sento staccarsi lentamente, via un brandello, poi un altro. E, infine, si sfracella e vola via del tutto, portato indietro dalla brezza gelata.
Ne calpesto i resti con le ruote della bici e sono libera. Con gli stracci rossi del mio vestito se ne va via l’odore di sigaretta. Lo sento sfumare nell’aria e pietrificarsi come fiocchi di neve, ma cinerei. Scompare dal vestito e poi si stacca dalla mia pelle. Apro la bocca e con le nuvole di condensa si dissolve anche il tuo sapore. Non c’è più niente di te sul mio corpo. Sei solo un ricordo grigio come nuvola di fumo.
Ho tenuto gli occhi chiusi e quando li ho riaperti ti ho trovato di nuovo davanti a me. Non c’è la bici, ho ancora il vestito addosso e puzzo sempre di fumo. Non so cosa ti ho detto, chissà perché non ricordo niente. Quella che ho fissa in mente è la scena della corsa in bicicletta, la sensazione di pace e di libertà, l’aria fredda che mi accarezza la pelle, delicata, che non fa male.
Tu mi stai facendo male, invece. Mi stai allontanando? Cosa ti ho fatto? Mi spingi come un sacco da boxe vestito di rosso. Una, due volte, lo fai di nuovo. Vedi che barcollo ma poi ritorno in equilibrio sui tacchi a spillo di mia sorella, li avrò rovinati, se ne accorgerà. Il mio corpo, prima ammirato, toccato, palpeggiato, ora schifato. Non mi guardi più, biascichi parole con la testa appoggiata al muro, nemmeno capisco cosa dici. Rimango ferma, mi stringo le braccia al petto e mi riscaldo con il mio corpo, l’unica cosa calda che mi rimane.
Vai via, mi dici, e questo lo capisco dalla forma delle tue labbra. Sono impastate di fumo, alcool e aria fredda. Sembrano muoversi da sole. Fai per allontanarti e io non ci provo nemmeno a trattenerti, perché in fondo è quello che ho voluto fin dall’inizio, solo che non te l’ho detto. Ti guardo calpestare la stessa strada che abbiamo calpestato insieme. Sono sola, mi hai lasciata sola, sento freddo e non so come ritornare a casa. Allora, mi metto in cammino perché non c’è altro da fare.
Non ho la bici rossa e i tacchi fanno male, i piedi sono ghiacciati e non sento più le dita. La strada che scelgo è quella che ho immaginato, tutta uguale. Grigio antracite intorno, non ci sono luci dei lampioni, le case sembrano abbandonate. Le illuminazioni della discoteca lente si dissolvono e le lascio alle mie spalle, e poi tutto diventa buio. Mi sfilo un tacco, poi l’altro. Sono un funambolo che cammina sul bordo del marciapiede. Se metto un piede male crollo, e finisco per terra.
Così tengo l’equilibrio meglio che posso, con le braccia distese e formo una T con il busto. Se guardo in basso c’è il vuoto, la strada è un mare di pece nera che mi risucchia. Un piede segue l’altro. La strada mi riporterà a casa, meta finale del mio cammino. Lo avevo immaginato diverso, questo finale. Il sapore di sigaretta non se ne va via, e il vestito non si disintegra con il vento, è tutto più lento e pericoloso. Pesante come il peso dei tuoi baci, dei tuoi morsi, delle tue braccia che mi spingono, che mi rifiutano, solo perché non ti ho detto sì va bene puoi continuare. Se mi concentro su come appoggio i piedi per non cadere non penso più a te. Vorrei non averti conosciuto, vorrei essere a casa, con un plaid pesante sulle cosce e un pacco di biscotti al cioccolato.
Ma continuo a camminare, chissà quando arriverò, funambula sul filo vertiginoso accanto all’asfalto, le braccia aperte e quell’odore maledetto che non va via.