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Ingiustizia discorsiva: quando non si possono fare cose con le parole

Avete mai sentito parlare di ingiustizia discorsiva? Quando si verifica e quando possiamo effettivamente identificarla? Nell’articolo proveremo a fare luce su questa forma di hate speech, partendo dalla teoria degli atti linguistici di Austin fino ad arrivare ad esempi letterari e reali.

La teoria degli atti linguistici

John Langshaw Austin (1911-1960) è stato un filosofo e linguista inglese. La sua opera più famosa è Come fare cose con le parole (How to Do Things with Words, 1962): il linguaggio ha due tipologie di enunciati, quelli constativi e quelli performativi. I tipi di enunciato performativi (dall’inglese to perform ‘eseguire, agire’) sono quelli attraverso i quali si compie un’azione, e li contrappone a quelli meramente descrittivi, che chiama constativi.

Ogni nostro atto linguistico, quindi, ha la capacità di creare effetti extralinguistici, intenzionalmente o meno, e di influire su azioni, pensieri e sentimenti dei partecipanti alla conversazione.

Le idee di Austin stanno vedendo un ritorno in auge nell’ultimo decennio: si inseriscono all’interno di un clima sociale già propenso ad assimilare una simile teoria, grazie ai movimenti femministi e LGBTQ+.

Definizione di ingiustizia discorsiva

Per la definizione di ingiustizia discorsiva riprendo le parole di Claudia Bianchi, dal suo testo Hate Speech: il lato oscuro del linguaggio.

Chiamiamo ingiustizia discorsiva un particolare fenomeno comunicativo: l’appartenenza a un gruppo sociale oppresso sembra distorcere e a volte annullare la possibilità di agire efficacemente nel mondo sociale, di costruirlo e trasformarlo – di fare cose con le proprie parole.

Sotto questa etichetta rientrano due tipologie di ingiustizie discorsive:

1. Distorsione: chi appartiene a un gruppo sociale discriminato si trova, contro la sua volontà, a fare cose diverse con le sue parole rispetto a quelle che intendeva fare. Perciò, le sue parole risultano più deboli rispetto alle stesse parole pronunciate da un appartenente a un altro gruppo sociale.

2. Riduzione al silenzio: in alcune circostanze il parlante non riesce più a fare cose con le sue parole perché queste vengono indebolite o annullate.

Il caso di Elizabeth Bennet

Un esempio letterario che Bianchi riporta nel suo libro è quello di Elizabeth Bennet che tenta di rifiutare la proposta di matrimonio di Mr. Collins nel celebre romanzo Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Nonostante Elizabeth rifiuti diverse volte le sue avances, Mr. Collins non sembra essere affatto convinto del no della ragazza, e continua a indebolire le sue parole:

“So bene, e non da ora”, replicò Mr. Collins, con un cerimonioso gesto della mano, “che tra le signorine si usa respingere la proposta di un uomo che esse intendono segretamente accettare, quando lui richiede per la prima volta i loro favori; e che talvolta il rifiuto è ripetuto una seconda e persino una terza volta. Non
mi ritengo quindi minimamente scoraggiato da ciò che avete appena detto, e spero di condurvi all’altare quanto prima.”

Elizabeth è vittima di ingiustizia discorsiva e riesce a svincolare Mr. Collins solo rivolgendosi al padre che intercede al suo posto nel rifiuto.

Dalla finzione alla realtà: chi non può fare cose con le parole?

Questo paragrafo dell’articolo non sarà scritto da me, vorrei piuttosto che sia uno spunto per le lettrici e i lettori: quali categorie sociali non possono fare cose con le loro parole? Ci sono stati casi mediatici del genere? E noi, lasciamo agli altri la possibilità di fare cose con le parole o li opprimiamo?

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Gloria Fiorentini

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