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Come Greta Gerwig riesce a mettere Barbie (e Ken) davanti allo specchio

Oggi voglio parlarvi del film più chiacchierato del momento, forse dell’anno e meritatamente. Campione d’incassi, per una volta il film che stanno vedendo tutti ma proprio tutti non parla di supereroi e sì questo lo dico con una punta di soddisfazione. Si tratta di Barbie, uscito nelle sale il 20 luglio scorso per la regia di Greta Gerwig, al suo terzo film dopo Ladybird e Piccole Donne (anche questi consigliatissimi), scritto da lei e Noah Baumbach. Per quanto mi riguarda ho avuto la fortuna di vederlo in originale in una sala piena di gente di ogni fascia d’età e il fatto che tanto si siano fermati dopo il film dentro e fuori la sala per discuterne dice già molto.

Greta Gerwig affronta lo stesso nucleo di temi ben definito in tutti i suoi film, adottando però sfumature diverse per ognuno di essi. Con Barbie la sfumatura adottata è decisamente il rosa accesso (perdonatemi la battuta). I temi affrontati in Ladybird e Piccole donne qui incontrano la bambola più famosa della storia, insieme al gigantesco processo di marketing alle sue spalle e a tutta una dose di cultura pop. Tutti elementi che fanno del film un prodotto unico nel suo genere, nonostante esistano dei precedenti.

Ciò cherò rende il film un gioiellino è la mano della sua regista quanto a ideazione, scrittura e scelta di cast (Margot Robbie e Ryan Gosling su tutti). L’idea di umanizzare man mano la bambola esteticamente perfetta, attraverso la sperimentazione di una crisi esistenziale, fino a renderla portatrice di tutta una filosofia esistenzialista e femminista è la carta vincente del film.

Mi trovo d’accordo con chi ha affermato che Barbie sia un film femminista ma solo nel senso di introduzione al tema. Sicuramente il film non dice nulla di nuovo a chi si interessa seriamente di femminismo (per intenderci un esempio è il discorso di Gloria, interpretata da America Ferrero), ma ha il merito di coinvolgere e avvicinare al tema il grande pubblico in maniera ironica e divertente. Ed è proprio nella chiave ironica che sta la sua originalità e il suo punto di forza. Si tratta di un raro esempio di femminismo che riesce a veicolare messaggi facendo ridere e a divertire (e anche tanto). Lo aveva fatto in parte già Emerald Fennell con Una donna promettente, purtroppo però non con lo stesso impatto mediatico di Barbie.

Inoltre il paradosso del film sta nel fatto che sfrutta i mezzi di quello stesso capitalismo che la pellicola tenta di criticare. Forse un tentativo di disinnescare il sistema dall’interno, utilizzando i suoi stessi mezzi per veicolare messaggi contro di lui. Altro paradosso è che senza quegli stessi mezzi di diffusione di massa il film non sarebbe arrivato allo stesso numero di persone. Ma andiamo con ordine (allerta spoiler).

Barbieland visivamente è una goduria. Costruito alla perfezione, è esattamente come ce lo immaginavamo quando ci giocavamo da bambine. Qui la protagonista Barbie Stereotipo (Margot Robbie) vive ogni giorno il giorno perfetto insieme alle altre Barbie. Il loro è un territorio matriarcale, un mondo utopico dove ogni Barbie ha una professione e riveste posizioni di potere, tranne appunto Barbie stereotipo. Nel mondo di Barbieland ci sono anche i Ken, i quali vivono all’ombra delle Barbie senza porsi troppi problemi. L’unico desiderio del Ken protagonista (un esilarante Ryan Gosling) è quello di essere amato da Barbie. Passa infatti le sue giornate in spiaggia tentando di attirare la sua attenzione.

Un bel giorno però Barbie stereotipo si risveglia con i piedi piatti, la cellulite e con invasivi pensieri di morte. Questi e molti altri cambiamenti repentini nella sua routine perfetta la inducono a chiedere aiuto a Barbie stramba, parodia della Barbie solitamente torturata dalle bambine. Personalmente la mia preferita, una sorta di fata madrina sui generis che spiega alla protagonista come muoversi. Qui veniamo a sapere che esiste una connessione tra le Barbie e le bambine che giocano con loro nel mondo reale. Per questo Barbie stereotipo deve recarsi nel mondo reale per riparare ai danni fatti dalla bambina che gioca con lei.

L’impatto dovuto al passaggio al mondo reale è a mio parere il momento migliore del film. Si vede chiaramente il cambiamento di sguardo che avviene rispetto a Barbieland. Barbie e Ken, che l’accompagna nel viaggio, sono percepiti in maniera completamente diversa. Barbie si sente giudicata, scrutata, non è per nulla a suo agio, riceve costantemente commenti fuori luogo sul suo corpo dagli uomini. Ken al contrario sente di essere guardato con ammirazione da uomini e da donne e rispettato per il solo fatto di esistere come maschio. Esattamente ciò che avviene nel nostro mondo. Il cambiamento di sguardo si riflette nella regia e nella fotografia che per la prima volta qui indugia sulle forme e sul sedere di Barbie.

Ken scopre il patriarcato, un mondo dominato e controllato dagli uomini (e secondo lui dai cavalli) e decide di tornare a Barbieland per provare a instaurarlo lì. Nel frattempo Barbie, rimasta nel mondo reale, vive due incontri fondamentali. Il primo è quello con i dirigenti della Mattel che con sua sorpresa scopre essere tutti uomini (qui la satira verso il sistema è spudorata) che vogliono solo “riportarla nella scatola” per preservare i propri interessi. Ho apprezzato la satira irriverente, che trasforma quelli che dovrebbero essere potenti miliardari in dei fantocci che non riescono mai nei loro intenti. La Mattel (azienda di giocattoli che produce le Barbie) qui ha fatto un’operazione che non va suo vantaggio quanto ad immagine, ma sicuramente è stata una scelta che dà preminenza al profitto maggiorato che gli verrà in ogni caso da quello stesso film che la sbeffeggia ( questo purtroppo è proprio il sistema capitalista).

Il secondo incontro è quello più significativo con Gloria (America Ferrero) e sua figlia Sasha (Ariana Greenblatt). Barbie scopre che colei che le stava procurando quei cambiamenti nonché sua proprietaria è la madre Gloria e non sua figlia,come inizialmente pensava. E’ lei che, dipendente della Mattel in preda allo sconforto per il rapporto difficile con la figlia adolescente, aveva sfogato i suoi sentimenti negativi sulla sua Barbie. A mio parere il rapporto madre-figlia fra le due poteva essere meglio sviluppato. Greta Gerwig ci ha fatto un film a riguardo, Ladybird, in cui si concentrava unicamente sul rapporto della protagonista Christine con sua madre.

In Barbie diventa uno dei tanti temi del calderone che Gerwig ha tentato di estendere rappresentando più rapporti di questo tipo. Come quello tra Barbie stereotipo e la sua creatrice Ruth Handler, che nel finale tenta di aiutare la bambola ad entrare in contatto con i suoi sentimenti. Questo l’ho trovato più sentito e originale. Cli dice molto dell’importanza per una creatrice della propria opera, che è considerata alla stregua di una figlia (anche questo tema centrale in un altro film di Gerwig, Piccole donne).

Divertentissima la soluzione narrativa della guerra ai Ken e dei Ken tra di loro. Quando Barbie ritorna a Barbieland ritrova un mondo invertito a favore dei Ken, il cui simbolo del potere è naturalmente rappresentato dai cavalli. In questo mondo le Barbie non hanno soltanto la funzione accessoria che prima avevano i Ken, ma sono diventate delle vere e proprie serve.

Alla vista della propria realtà stravolta e di fronte alla chiusura al dialogo da parte di Ken, Barbie vive il momento di disperazione più profonda. Qui il film tocca l’apice della sua tragicità. Si percepisce tutto il retrogusto amaro del film fino a farci dubitare del fatto che stiamo assistendo effettivamente ad una commedia.

Non è morta. E’ in preda a una crisi esistenziale

Anche la trovata successiva con cui Barbie e Gloria liberano le altre Barbie dal lavaggio del cervello dei Ken l’ho trovata molto pungente. Uno degli escamotage più intelligenti per aggirare i Ken è quello della Barbie occhialuta che ha bisogno che un uomo le tolga gli occhiali per mostrarle quanto è bella (rigorosamente senza). Sicuramente una frecciatina pungente a quella parte di cinema che per anni ci ha abituato a prendere seriamente delle scene così (mi dispiace Pretty Princess).

Alla fine, mentre i Ken risolvono i loro problemi nella maniera che gli uomini sono abituati ad adottare, cioè la guerra, le donne si riprendono il controllo di Barbieland.

Forse tutte le cose che pensavi ti definissero non sono davvero te

La frase chiave del film, quella che forse mi ha colpita più nel profondo e che indica quanto la pellicola metta in dubbio la possibilità dell’esistenza di identità sempre statiche e monolitiche non sottoposte al cambiamento. Il cambiamento è infatti ciò che caratterizza il percorso di Barbie, ma anche quello di Ken. Il film è un romanzo di formazione per entrambi, ma in modo diverso. È come se entrambi vengano messi davvero davanti allo specchio (in senso più ampio stavolta e non solo materiale). Ken resta un gradino indietro a Barbie, ma perché parte da una base più bassa. All’inizio del film Barbie è una bambola che non ha una sua personalità in quanto Barbie stereotipo, ma ha una identità tale per cui basta a sé stessa. Ken invece esiste solo in funzione di Barbie, per il resto non ha un altro ruolo.

Dopo le vicende narrate, Barbie arriva a capire che questa identità non le basta senza una sua personalità e una capacità di sentire, motivo per cui lei sente il bisogno di diventare un essere umana. Ken scopre alla fine un’identità che prima non sapeva di avere (da I’m just Ken a Ken is me) e questo al momento sembra bastargli. Lui è Kenenough. Chissà se più tardi nella sua vita scoprirà anche il bisogno di esprimere questa identità con una personalità o rifiuterà per sempre una forma.

What was I made for? La canzone di Billie Eilish che chiude il film sottolinea ancora una volta il senso del film.

Abbiamo assistito ad una messa in scena della vita che stravolge anche i mondi più utopici, costringe a fare i conti con gli errori, gli sbagli, le ingiustizie e i cambiamenti.

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Alessia Merra

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