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Moonlight shadow di Yoshimoto Banana

Modern Tanabata: Moonlight shadow di Yoshimoto Banana

Una ragazza, accaldata dopo una corsa mattutina, sosta su un ponte. Le guance arrossate dall’aria cristallina e pungente, le mani tremanti dal freddo. Raggiunge la borraccia che porta con sé e si versa una tazza di té bollente, continuando a guardare il fiume che divide la sua città in due parti.

Solo lì riesce a sentirsi a suo agio, malgrado la desolazione che la affligge.

Quel ponte è parte di lei. È il luogo dove si incontrava sempre con il suo innamorato, con la persona che più contava nella sua vita, con cui ha condiviso quattro anni di gioie, turbolenze e piani per il futuro. Hitoshi, che ora non c’è più.

Ferma così, in quell’aria cristallina e pungente, mi sembrava di stare in un luogo un po’ più vicino alla morte. Solo in quello scenario severo e limpido, di una solitudine desolata, riuscivo a sentirmi a mio agio. Non per masochismo: perché senza quel momento non avrei avuto la forza per affrontare il resto della giornata. Quel paesaggio era diventato per me assolutamente necessario.

Altra scena. Sulla banchina di una stazione ferroviaria, una ragazza offre un campanellino a un ragazzo che le piace. Lo fa un po’ per scherzo e un po’ per fissare quel momento nella memoria. Il ragazzo accoglie il gesto e il dono, e racchiude quella premura in un fazzoletto di stoffa che si infila poi di nuovo in tasca.

Quel campanello mise in moto i nostri sentimenti. Ci rimase in mente per tutto il resto del viaggio. Ogni volta che il campanello tintinnava, lui si ricordava di me e del tempo trascorso insieme, e io passavo i giorni a pensare a lui e a quel campanellino che lo accompagnava sotto un cielo lontano. Al ritorno cominciò un grande amore.

Terza scena. Una ragazza attende un amico seduta in una caffetteria. Lo scorge da lontano e alza un braccio per fargli cenno della sua presenza. Lui si accorge di quanto lei stia soffrendo, ma non glielo fa notare. Anzi, fa l’opposto, cerca di farla ridere, la invita a mangiare qualcosa di buono. Cerca di prendersi cura di lei e in questo modo guarisce anche un po’ sé stesso. E lei capisce e glien’è profondamente grata. Grara che non faccia domande, che non cerchi soluzioni. Grata che lui ci sia, malgrado lei non sia l’unica a tormentarsi.

Il kakiagedon che stavamo mangiando, seduti al banco di quel piccolo ristorante nuovo, che aveva ancora l’odore del legno fresco, era così buono da far quasi ricordare cos’era l’appetito.
“Visto?” disse Hiiragi.
“Squisito. Viene quasi da pensare che valga la pena di vivere,” dissi.

Gli oggetti sono soltanto oggetti, dice uno dei protagonisti, ma alle volte possono essere l’inizio di qualcosa, il punto di appoggio per ricominciare a guardare avanti.

Un gesto alle volte può rimanere nei pensieri, catalogato come senza importanza. Da solo sembra privo di spessore, senza l’apparente potenziale per il cambiamento. Eppure un gesto alle volte può fare molto, per quanto possa sembrare insignificante.

Affrontare un lutto prevede uno spettro di emozioni, sentimenti e viaggi nei ricordi che ognuno affronta a suo modo. Non c’è giusto o sbagliato, non ci sono istruzioni da seguire, non ci sono persone da impressionare, non c’è tempo da osservare. Riguarda solo il nostro cuore, il nostro corpo, l’assenza che si è creata nel nostro spazio. Nessuno ha il diritto di giudicare il nostro lutto.

E poi a volte diventiamo stelle e una volta all’anno possiamo ritrovarci nel cielo e amarci ancora un momento. Oppure a volte possiamo anche ritenerci fortunati e avere la possibilità di dire addio prima che la separazione sia definitiva. Un’ultima chance per agitare la mano da lontano e sorriderci.

Moonlight shadow, di Yoshimoto Banana.

Il successo internazionale di Yoshimoto Banana non ha bisogno di presentazione. Tra i premi ricevuti, ricordiamo il Best Newcomer Artist del 1988 con Kitchen e Utakata/Sankuchuari, il secondo posto per lo Yamamoto Shugoro Literay Prize nel 1989 con Tsugumi, per non parlare del Premio Murasaki Shikibu nel 1994 con Amrita.

Tradotto in italiano da Giorgio Amitrano.

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Alessandra Marrucci

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