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Informare sulla violenza: il fallimento dei media

Un altro caso di femminicidio, un altro obiettivo mancato per i media. Il più recente caso di violenza in provincia di Varese è stato pubblicato su tutti i giornali, con una particolare meticolosità nel descrivere accuratamente la vicenda nei suoi minimi dettagli, dalle modalità del femminicidio al suo protagonista indiscusso per i riflettori giornalistici, dalle testimonianze dei vicini alle ipotesi di reato. Ciò che, però, scambiamo per informazione non è null’altro che disinformazione, servita sul piatto d’argento del patriarcato.

Quando la classe sociale dell’omicida è più importante della vittima

Sul femminicidio avvenuto a Samarate, i giornali non si sono risparmiati. Sin dal primo momento, enormi titoloni hanno occupato le prime pagine e le home page dei siti di informazione, facendo rimbombare il nome dell’accusato e, specialmente, la sua professione: sappiamo tuttə che si trattava di un architetto. Cercando banalmente su Google la parola “architetto”, nella sezione notizie, i primi risultati ci restituiranno proprio gli articoli in merito. “L’architetto dei locali vip che ha sterminato la famiglia”, “L’architetto della strage”, “L’architetto con studio a Milano”, “Perdonami Giulia, le scuse dell’architetto alla figlia“. Questi sono solo alcuni esempi dei titoli dei giornali principali, dove il focus si concentra sulla sua professione lavorativa.

Il risalto dato dai titoli alla sua carriera oscura nettamente il reato da lui commesso, ascrivendolo alla sfera del delirio, della follia, del raptus o della ossessione, come riportano poi i testi degli articoli. Dobbiamo leggere questo modus operandi secondo una chiave di interpretazione ben precisa. Ovvero, la classe sociale a cui appartiene l’accusato diventa un attenuante per ciò che è avvenuto, ripulendolo da una fetta di responsabilità. In altre parole, avendo lui un lavoro così di alto profilo, rispettabile e remunerativo, non può essere certo responsabile di quanto accaduto. I giornali ricercano la colpa in altre componenti, in quella follia, anormalità e raptus di cui poi si parla. Le modalità di un omicidio efferato come questo non possono mica provenire da una mente sana, solida e stabile. Al contrario, sono un caso una tantum che nulla ha a che vedere con la capacità di intendere e di volere. E non è la prima volta che assistiamo a questa tecnica. Un caso eclatante fu quello di Alberto Genovese, l’ormai noto imprenditore “vulcano di idee” fondatore di facile.it con l’accusa di numerose violenze sessuali.

Non è solo un problema di informazione sulla violenza

Ciò che succede, però, sul palcoscenico mediatico, si riflette spesso anche nelle aule dei tribunali. Secondo un’analisi, che ha studiato 211 casi di femminicidio tra il 2017 e il 2018, il 59% delle volte si dichiarava l’accusato come incapace di intendere e di volere. La realtà, poi, era ben diversa: solo 7 uomini su 100 sono stati poi effettivamente dichiarati incapaci o con disturbi psichiatrici. I restanti 93 avevano premeditato gli omicidi. Perché, allora, narrare le vicende di femminicidio come frutto di una follia non umana, un atto inspiegabile o un raptus stra-ordinario? Perché ammettere che la violenza sulle donne sia un fenomeno strutturale, con una matrice di stampo maschilista e violenta, sarebbe un fallimento, per il patriarcato.

Il rifiuto di collocare il femminicidio in una tendenza più ampia e generale, riconoscendone la ripetibilità dei modi, fomenta la cultura dello stupro e le sue declinazioni. Dagli stereotipi ai pregiudizi, dalle discriminazioni ai mancati diritti, l’informazione scorretta può fomentare la violenza sulle donne. E veicolare tali messaggi è potenzialmente dannoso per la lotta contro la violenza. Si continuerà a giustificare, deresponsabilizzare e, in alcuni casi, celebrare l’uomo violento. L’ha uccisa? Ma era un bravo padre di famiglia! L’ha ammazzata? Ma lei lo tradiva! L’ha violentata? Ma lui è così mite!

Raccontare la violenza: come farlo

Per quanto riguarda il giornalismo, bisognerebbe far riferimento al Manifesto di Venezia. Il decalogo di consigli stilato dall’associazione di giornaliste GiULiA individua le problematiche e le criticità dell’informazione giornalistica e propone soluzioni corrette ed efficaci.

Il ruolo educativo della stampa viene sottolineato a più riprese nella lotta contro la violenza sulle donne. Ad esempio, evitando di usare parole come follia o raptus, dando risalto a tutti i casi di violenza, anche quelli commessi contro prostitute o persone trans. O, ancora, non strumentalizzare i casi inserendo dettagli macabri o stuzzicanti per fini commerciali.

E per quanto riguarda tuttə noi? In ogni momento in cui parliamo di questi episodi di violenza, stiamo informando: non è solo la nostra opinione che trasmettiamo, stiamo costruendo la realtà linguistica e interpretativa che darà il senso all’evento ai nostri ascoltatori. Per questa ragione, inquadrare i casi di violenza per quello che sono – strutturali, appartenenti alla cultura patriarcale, razionali – è un ulteriore tassello per la nostra battaglia.

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Elena Morrone

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