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Se domani toccasse a me, so che non sarei l’ultima

Ogni mese noi ragazze di Viole di Marzo organizziamo il nostro calendario per pubblicare gli articoli. Non nego che quando ho scoperto che il mio articolo di novembre sarebbe uscito proprio il 25, ho avuto un po’ di timore. Non sapevo se sarei stata in grado di parlare di violenza sulle donne in modo adeguato: chi sono io per farlo? Che competenze ho?  Ho avuto paura, perché sapevo che scrivere un articolo riguardo alla violenza di genere e ai femminicidi sarebbe stato molto doloroso. Ma si tratta di un dolore necessario, che mi devo e che ci dobbiamo accollare per cambiare il mondo a partire dalla nostra quotidianità.

Ho dunque deciso di scrivere un articolo riguardo a ciò che provo in questo periodo, nonostante sia difficile e nonostante ci sia il rischio che io possa dire la cosa sbagliata. Ho anche capito però che la paura di dire la cosa sbagliata non mi deve fermare. Mi prenderò il rischio di sbagliare. Sbaglierò, se devo. Sono umana. 

I recenti avvenimenti che conosciamo tutte mi hanno toccata in un modo più inaspettato del previsto. Rabbia, tristezza, paura e stanchezza si sono mescolate a una sensazione che riesco a descrivere solamente come un giramento di testa.

Questo capogiro l’ho provato leggendo, a uno a uno, i nomi delle 106 donne uccise in Italia nel 2023. L’ho provato mentre prendevo consapevolezza del fatto che nessuna di noi è al sicuro. L’ho provato ascoltando un audio di Giulia Cecchettin diffuso dai media, in cui la ragazza temeva che il suo carnefice avrebbe potuto farsi del male poiché si erano lasciati e che si sentiva in colpa per lui. L’ho provato rendendomi conto, per l’ennesima volta, che il patriarcato che uccide è lo stesso patriarcato che tutte noi abbiamo provato almeno una volta sulla nostra pelle e che ha la forma di palpeggiamenti, commenti, sguardi e fischi inopportuni. Le radici del femminicidio sono in quella roba lì.

La poesia Se domani non torno dell’attivista peruviana Cristina Torres-Cáceres, diventata virale in questi giorni, è bellissima e potentissima. Anche io l’ho ricondivisa. Eppure, ha lasciato dentro di me un senso di angoscia non indifferente, perché se domani toccasse a me, morire per mano di un uomo, so che non sarei l’ultima. E ho i brividi, a scrivere queste parole.

Sono francamente stanca, affranta. Voglio credere con tutta me stessa che qualcosa stia cambiando. In questi giorni ho letto diverse volte che dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin le richieste di aiuto al numero antiviolenza – 1522 – sono raddoppiate. Ed è importantissimo, non fraintendetemi. Tuttavia, come posso essere fiduciosa, sapendo che Giulia Checchetin non sarà l’ultima ragazza, l’ultima donna, a morire per mano di un uomo? Non riesco a fare a meno di chiedermi chi di noi sarà la prossima. E, lo confesso, questo pensiero mi fa sobbalzare. Sarà per questo che da qualche giorno a questa parte sento un freddo dentro alle ossa che non se ne va, una paura di cui però sento di dovermi fare carico. 

Mi sono interrogata molto sul perché la storia di Giulia Cecchettin abbia avuto una risonanza simile: cosa c’è, effettivamente, di diverso rispetto agli altri casi di femminicidio? Sarà la giovane età della vittima, o il fatto che si sarebbe dovuta laureare pochi giorni dopo la sua tragica morte? Sarà il fatto che la sentiamo così vicina a noi? Saranno la sua innocenza, la sua vulnerabilità, il fatto che i giornali hanno scelto di diffondere una foto dove lei abbraccia un albero? Mi chiedo che cuore puro e che anima bella debba aver avuto una persona che abbraccia gli alberi e mi viene da piangere e da gridare dalla frustrazione, dall’angoscia, dal dolore. 

Per quanto vorrei che dentro di me ci fosse spazio per la speranza e per quanto il mio atteggiamento sia sempre tendenzialmente positivo, questa volta confesso che dentro di me me qualcosa si è rotto. Non riesco a provare speranza, per quanto io sia convinta che sì, qualcosa sta cambiando e la consapevolezza sta aumentando. 

Non starò zitta, non staremo zitte. Ora più che mai farò e faremo tantissimo rumore: l’ho sempre fatto, ma adesso sento che ho tante altre sorelle, al mio fianco. E se è vero che non posso parlare di speranza, posso invece parlare di sorellanza. Sorellanza è una parola potente, che risuona in tutto questo schifo, che mi fa dire: « Nel bene o nel male, non sarai sola ». Se domani fossi io, a morire per mano di un uomo, o se fossi tu, sorella, so che saremmo rivendicate. So che tantissime sorelle scenderebbero in piazza per me. Così come noi, oggi, lo faremo per Giulia e per quelle altre 105 donne.

Non smetterò di alzare la voce, anzi. Ora, ancora più di prima, mi arrabbierò, se dovrò. Mi arrabbierò tanto, tantissimo, se sentirò un commento sessista al bar, se sentirò fischi per la strada, se vedrò qualche uomo che alza la voce su una donna. Badate bene, l’ho sempre fatto, ma so che ora, assieme a me, si arrabbieranno molte altre persone. 

E voglio credere che queste persone non saranno solo donne, ma anche uomini. Gli uomini giocano e giocheranno un ruolo fondamentale in questa lotta. Lo faranno assumendosi le loro responsabilità, riconoscendo il loro privilegio e scendendo in piazza a fianco a noi.

Non possiamo permetterci di stare zitte, non più. Dobbiamo essere parte attiva del cambiamento, dobbiamo parlare di violenza di genere ogni giorno, farci carico di questa problematica nonostante sia dolorosa e triggerante e pesi come un macigno sul petto. Diffondere consapevolezza ed educare l’Altro sono gli unici strumenti che abbiamo per salvare vite. Prima ce ne renderemo conto e prima potremo, forse, finalmente parlare dell’ultima vittima di femminicidio. E mi auguro che quel giorno arriverà presto.

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Elisa Manfrin

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