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La normalità del femminicidio: siamo cadutə tuttə dal pero dopo il caso di Giulia Cecchettin

Ne hanno parlato tuttə, in qualsiasi modo. Fin dalle prime fasi, il femminicidio di Giulia Cecchettin è stato seguito da qualsiasi piattaforma mediatica. Ne hanno scritto i giornali, è stato condiviso sui social network, ne hanno parlato alla televisione. Abbiamo ascoltato l’appello disperato per ritrovarla, mentre molte di noi già immaginavamo come sarebbe finita questa storia, fino al ritrovamento del corpo. Svincolarsi da ogni macabro dettaglio è stato impossibile. I suoi audio, le sue foto, le sue speranze erano sulla bocca di tuttə e, inevitambilmente, anche davanti ai miei occhi. Ma non solo.

Hai visto? Hai letto? Che ne pensi? Numerose persone della mia rete mi hanno contattata per confrontarsi su un caso che, a differenza dei precedenti, le ha toccate particolarmente. Questa volta, c’è stata una risonanza mediatica potente e senza pari. Ogni messaggio che mi è arrivato, e a volte anche quelli che io stessa ho mandato, terminava con “stavolta mi ha colpito più delle altre volte”. Mi sono sentita scossa per giorni e lo sono tutt’ora. E accanto a me ho persone che si sentono allo stesso modo. Perchè? Per quale motivo, le altre 102 precedenti donne vittime di femminicidio non hanno scosso la morale collettiva? Forse perchè Giulia Cecchettin era giovane e senza colpe sociali? Oppure perchè Filippo Turetta è ben lontano dall’immaginario collettivo del Barbablù di turno che uccide le ragazze? Cosa c’è di diverso?

Il racconto di un femminicida

Molto probabilmente, mentre sto scrivendo, un’altra donna è stata ammazzata o sta per esserlo. All’elenco di nomi, dopo Giulia Cecchettin, si aggiungono quello di Meena Kumari, uccisa il 28 Novembre in provincia di Parma dal marito che è stato fermato dalla polizia, e quello di Vincenza Angrisano, lo stesso giorno, ad Andria, ammazzata dal marito. In effetti, i numeri parlano chiaro: una donna ogni tre giorni viene uccisa da un uomo. 102 donne prima di Giulia Cecchettin sono state uccise, altre 2 dopo di lei, chissà quante altre prima della fine dell’anno.

Se per le altre 102 non c’era abbastanza spazio nell’agenda pubblica, da qualche settimana il tema del femminicidio e della violenza di genere in tutte le sue forme è entrato di forza, occupandone tanto, di spazio. Certo, mai abbastanza, ma sicuramente meglio di prima. Si potrebbe dire che quello di Cecchetin sia un caso spartiacque, un prima e un dopo di una doccia gelata di consapevolezza. Lo spazio pubblico che ha preso, però, è ben diverso rispetto ai casi precedenti, di cui si è sentito parlare poco e male. Quest’anno, infatti, solo un altro caso era stato meritevole, per i media: il femminicidio di Giulia Tramontano, accoltellata dal fidanzato a Senago, in provincia di Milano.

La storia aveva dettagli succulenti per le piattaforme informative: era incinta di 7 mesi, aveva scritto alla madre prima di morire, il compagno aveva un’amante. Una storia fin troppo ricca di personaggi attraenti su cui poter scrivere a profusione, dando in pasto all’opinione pubblica una gran quantità di articoli e contenuti dall’enorme impatto emotivo. Solo, di striscio, qualche news sulle fiaccolate, sulle manifestazioni e sulla rabbia delle donne.

Nel racconto mediatico del femminicidio di Giulia Cecchettin, non sono mancati i soliti schemi narrativi in cui i media tutti tentano di restringere i casi di violenza di genere. La romanticizzazione di questo caso ha preso subito spunto dall’ipotesi di una fuga d’amore dei due ragazzi scomparsi. Ma non solo. Questa storia infelice ha trovato anche una ambientazione meritevole di nota: “un posto da innamorati, con il foliage da fotografare, il lago, le montagne, un posto sperduto e magico” è il luogo dove, come riporta una testata online, le unità di ricerca hanno ritrovato il cadavere.

E continua, poi, il racconto strappalacrime dei principali giornali italiani parlando di un ragazzo che “si mette a piangere di fronte al gip“, che in carcere “ha paura” e che si chiede se “potrà continuare a studiare”. Giulia Cecchettin, intanto, svanisce sullo sfondo, diventando solo un nome e a volte nemmeno quello. Basti vedere la home page di La Repubblica, con una sezione dedicata a Filippo Turetta. Tutti questi elementi non spiegano il fenomeno della violenza di genere ma giustificano il carnefice, spingendo il pubblico a empatizzare con lui. Tanto, è solo la sua voce a poter essere ascoltata. O quasi.

Le parole di un femminicidio

102 volte dopo a emergere non è solo il punto di vista dell’assassino. Questa volta, di un impatto travolgente e potentissimo, c’è la voce della sorella della vittima, Elena Cecchettin. Lei, di fronte alle videocamere, non parla della storia d’amore conclusasi con un tragico epigolo, ma pronuncia termini come patriarcato, violenza di Stato, relazioni di potere. Occupa, con la sua voce, tutto lo spazio che le lotte femministe stanno tentando di conquistare da anni, dando finalmente una spiegazione pubblica a un omicidio pubblico. L’amore, la follia, il raptus non c’entrano nulla con quanto è successo.

Piuttosto, sono il dominio e la possessione che Filippo Turetta ha voluto esercitare fino all’ultimo a spiegare questo gesto. Così come la cultura patriarcale in cui lui, come tuttə, siamo immersə. Elena Cecchettin ha sradicato la sorella e la sua storia dagli stereotipi che impregnano la narrazione mediatica e ne ha dato la versione vera, con le parole giuste. I giornali ci hanno potuto ricamare sopra molto poco. Giulia non è diventata l’ennesima ragazza morta per il troppo amore di Filippo, Filippo non è il folle impazzito dal desiderio. Non sono una Giulietta e un Romeo dei nostri giorni perchè Elena Cecchettin ha impedito con tutte le sue forze che lo diventassero.

La normalità del male

Proprio perchè i giornali non hanno potuto dare una loro versione di Filippo Turetta, non c’è stato nessun mostro preso da un raptus, né un Orlando furioso che rincorre un amore folle a uccidere una ragazza, quasi per fatalità. Al contrario, la figura di Filippo Turetta è talmente banale da essere spaventosa. Ed è per questo che molti uomini si sono sentiti più toccati da questo particolare caso. Sarebbe potuto essere un loro amico a uccidere Giulia Cecchettin. Potrebbe essere un loro conoscente ad ammazzare la fidanzata. O un loro collega ad accoltellare la madre. E, ancora, potrebbero essere loro stessi a commettere un femminidio.

L’impossibilità di dare al caso veneto una nota di sensazionalismo e al suo assassino un ombra di anormalità ha costretto molte persone a guardarsi allo specchio. In altre parole, hanno dovuto scrutarsi attentamente per tentare di trovare delle differenze inesistenti, con lo stesso terrore con cui Dorian Gray fissava il suo ritratto. Se Filippo Turetta non è un essere fantasticientifico o un personaggio da telenovela, vuol dire solo una cosa: è uno di loro. E cosa impedisce loro di prendere un coltello e uccidere una donna?

Siamo tuttə responsabili di un femminicidio

Tra i vari messaggi che ho ricevuto, quello di un mio amico mi ha colpita più di tutti. “Leggevo qualcosa del fatto che tutti i maschi sono responsabili e ho provato a pensare alle mie responsabilità. Come uomo bianco, etero e cis-gender, si stava interrogando su una questione che dovremmo porci tuttə noi, comunità maschile in primis. Infatti, a essere sul sanguinoso podio della piramide della violenza ci sono i reati più efferati, ma alla base, ci sono comportamenti di cui tuttə noi siamo protagonisti attivi o muti spettatori nella vita di tutti i giorni. Ed è proprio su quel gradino più basso che possiamo lavorare.

Esporsi dicendo che no, la gelosia non significa tenerci troppo. Disapprovare o allontanarsi da una persona che fischia a una ragazza in mezzo alla strada. Dare per scontato che se è uomo vuole scopare tanto mentre se è donna vuole scopare poco. La lotta che possiamo portare avanti è sulla nostra pelle, tutti i giorni, per essere responsabili collettivi dell’abbattimento della cultura patriarcale che, ogni giorno, sforna un amichevole femminicida di quartiere.

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Elena Morrone

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